Ospito con piacere nel mio blog uno scritto della collega Zaira Galli, relativo alla mediazione familiare. Leggete con attenzione il suo denso scritto che vuole dare una risposta sul tema delle separazioni conflittuali e relative sofferenze, sovente in presenza di bambini.
La Mediazione è un modo radicalmente diverso di concepire i conflitti, non tanto per le specifiche tecniche utilizzate, ma per la filosofia che ne sta alla base: gestire i conflitti impedendo che questi si esprimano in forme violente, riaccendendo la speranza e la voglia del dialogo e del confronto civile.
Mediazione non significa affatto “incontrarsi a metà strada”, trovando una soluzione di
compromesso. L’etimologia della parola mediazione è “dividere, aprire nel mezzo”: è piuttosto la presa d’atto di una “crisi (da “krino” che significa separazione, scelta, rottura) a cui si cerca una via d’uscita.
In tutti i casi la Mediazione diventa uno spazio-laboratorio ove provare a rinnovare un patto di convivenza riconoscendo la dignità ed il dolore di cui spesso sono portatori i confliggenti, un patto in cui coniugare le loro scelte e responsabilità anche con nuove modalità di condivisione del futuro.
In fondo, a ben considerare, la Mediazione è un’ “antica pratica” (sua culla è la Cina nel V secolo a. C.) secondo la quale si era soliti rivolgersi a una persona, ritenuta esperta e di fiducia, per chiedere il suo intervento in casi di dissidio per arrivare a un accordo. Rivisitata in chiave moderna può essere definita l’arte e la tecnica di condurre due o più parti in conflitto alla risoluzione di una disputa, il tutto reso possibile dall’applicazione della logica del miglior interesse realizzabile per tutti. Il “direttore del conflitto” è una terza figura neutrale, imparziale, chiamata “Mediatore”, a cui le parti in lite si rivolgono per trovare una soluzione mutuamente accettabile e soddisfacente per entrambe.
In altre parole è una precisa tecnica strutturata di gestione dei conflitti basata su precise abilità professionali e determinati presupposti teorici ed etici volta a porre fine alla conflittualità. Come tale è una procedura alternativa o complementare alla lite legale e ad altre forme di assistenza terapeutica o sociale rispetto alle quali agisce in completa autonomia pur stabilendo un rapporto interdisciplinare: lo scopo della mediazione, secondo quanto affermano Folberg e Taylor, è quello di isolare i termini della lite, sviluppare delle opzioni e raggiungere una risoluzione consensuale, senza vincitori e vinti.
La chiave di volta della nuova “cultura della mediazione” sta nella profonda conoscenza del conflitto come fenomeno socio-relazionale e in quanto tale da risolvere secondo una logica collaborativa, alla pari, per superare la dialettica vincitore-vinto della logica antagonista.
La mediazione nella sua accezione più ampia è un’alternativa all’iter legale nella risoluzione dei conflitti.
La Mediazione familiare è nata negli Stati Uniti d’America negli anni settanta e strutturata, poco dopo, in materia di separazione e/o divorzio coniugale. Jim Coogler, avvocato e terapeuta familiare di Atlanta, agli inizi degli anni settanta, mentre discuteva con alcuni amici sulla sua personale devastante separazione, cominciò a considerare la necessità di trovare un sistema più razionale e civile del processo legale (contenzioso) di divorzio fondato principalmente sull’accusa. A metà degli anni settanta Coogler decise così di fondare la Family Mediation Association con lo scopo di assistere i coniugi separandi per far sì che partendo da una situazione caratterizzata da frustrazione, debolezza e antagonismo, si arrivi a ristabilire o riguadagnare il controllo della propria situazione e raggiungere una risoluzione consensuale.
Ormai da circa un trentennio anche in Italia si parla di Mediazione come procedura alternativa e/o complementare all’iter legale nella risoluzione delle dispute (ADR): si tratta in senso lato di una nuova tendenza culturale sollecitata dai continui cambiamenti sociali e da nuove istanze psicologiche che sottolineano la natura socio-relazionale del conflitto, come tale è ineliminabile dalla relazione stessa. Il cambiamento culturale vuol dire cambiare atteggiamento nei confronti del conflitto stesso: esiste e di per sé non è né negativo né positivo, dipende da come ci si pone di fronte. E’ possibile adottare tre stili: di evitamento; far finta che non esista con il risultato che il conflitto si cronicizzi e interrompa la comunicazione interpersonale e perciò si deleghi gli esperti in giurisprudenza a stabilire chi ha ragione; uno stile antagonista con il risultato che dopo una guerra distruttiva ci sia un vincitore e un vinto; uno stile collaborativo che accetta il conflitto e lo gestisce alla pari con il risultato di una giustizia compositiva dei confliggenti. In quest’ultima condotta si può riconoscere che il conflitto prima di essere agito può essere pensato e ancora, pensare il conflitto, vuol dire possibilità di parlare dei motivi del contendere, di metacomunicare “di” e “su” questo conflitto e quindi capacità di riconoscere i bisogni dell’altro perché sono i suoi motivi del contendere. In quest’ottica, che ritengo la più rispettosa dei diritti individuali, entrambe le parti hanno diritto al riconoscimento dei propri bisogni, che è poi la soddisfazione degli stessi, intesa come giustizia compositiva.
Sovente chi lo vive non riesce a gestirlo perché troppo coinvolto emotivamente, paralizzato dalla paura del cambiamento, dalla convinzione di avere ragione o colto da spirito vendicativo. Si configura così la necessità di un intervento specialistico, quello del mediatore appunto che conduce “super partes” il percorso di mediazione.
Alla luce di quanto detto possiamo ora capire meglio come la Mediazione nella sua accezione più ampia sia una precisa tecnica strutturata di gestione dei conflitti basata su precise abilità professionali e determinati presupposti teorici ed etici volti a porre fine alla conflittualità in sede stragiudiziale.
Il suo campo di applicazione è ad ampio raggio perché diversi sono i contesti sociali in cui il conflitto può insorgere per cui nell’ambito dei conflitti familiari si parla di Mediazione Familiare.
Mediazione non significa affatto “incontrarsi a metà strada”, trovando una soluzione di
compromesso. L’etimologia della parola mediazione è “dividere, aprire nel mezzo”: è piuttosto la presa d’atto di una “crisi (da “krino” che significa separazione, scelta, rottura) a cui si cerca una via d’uscita.
In tutti i casi la Mediazione diventa uno spazio-laboratorio ove provare a rinnovare un patto di convivenza riconoscendo la dignità ed il dolore di cui spesso sono portatori i confliggenti, un patto in cui coniugare le loro scelte e responsabilità anche con nuove modalità di condivisione del futuro.
In fondo, a ben considerare, la Mediazione è un’ “antica pratica” (sua culla è la Cina nel V secolo a. C.) secondo la quale si era soliti rivolgersi a una persona, ritenuta esperta e di fiducia, per chiedere il suo intervento in casi di dissidio per arrivare a un accordo. Rivisitata in chiave moderna può essere definita l’arte e la tecnica di condurre due o più parti in conflitto alla risoluzione di una disputa, il tutto reso possibile dall’applicazione della logica del miglior interesse realizzabile per tutti. Il “direttore del conflitto” è una terza figura neutrale, imparziale, chiamata “Mediatore”, a cui le parti in lite si rivolgono per trovare una soluzione mutuamente accettabile e soddisfacente per entrambe.
In altre parole è una precisa tecnica strutturata di gestione dei conflitti basata su precise abilità professionali e determinati presupposti teorici ed etici volta a porre fine alla conflittualità. Come tale è una procedura alternativa o complementare alla lite legale e ad altre forme di assistenza terapeutica o sociale rispetto alle quali agisce in completa autonomia pur stabilendo un rapporto interdisciplinare: lo scopo della mediazione, secondo quanto affermano Folberg e Taylor, è quello di isolare i termini della lite, sviluppare delle opzioni e raggiungere una risoluzione consensuale, senza vincitori e vinti.
La chiave di volta della nuova “cultura della mediazione” sta nella profonda conoscenza del conflitto come fenomeno socio-relazionale e in quanto tale da risolvere secondo una logica collaborativa, alla pari, per superare la dialettica vincitore-vinto della logica antagonista.
La mediazione nella sua accezione più ampia è un’alternativa all’iter legale nella risoluzione dei conflitti.
La Mediazione familiare è nata negli Stati Uniti d’America negli anni settanta e strutturata, poco dopo, in materia di separazione e/o divorzio coniugale. Jim Coogler, avvocato e terapeuta familiare di Atlanta, agli inizi degli anni settanta, mentre discuteva con alcuni amici sulla sua personale devastante separazione, cominciò a considerare la necessità di trovare un sistema più razionale e civile del processo legale (contenzioso) di divorzio fondato principalmente sull’accusa. A metà degli anni settanta Coogler decise così di fondare la Family Mediation Association con lo scopo di assistere i coniugi separandi per far sì che partendo da una situazione caratterizzata da frustrazione, debolezza e antagonismo, si arrivi a ristabilire o riguadagnare il controllo della propria situazione e raggiungere una risoluzione consensuale.
Ormai da circa un trentennio anche in Italia si parla di Mediazione come procedura alternativa e/o complementare all’iter legale nella risoluzione delle dispute (ADR): si tratta in senso lato di una nuova tendenza culturale sollecitata dai continui cambiamenti sociali e da nuove istanze psicologiche che sottolineano la natura socio-relazionale del conflitto, come tale è ineliminabile dalla relazione stessa. Il cambiamento culturale vuol dire cambiare atteggiamento nei confronti del conflitto stesso: esiste e di per sé non è né negativo né positivo, dipende da come ci si pone di fronte. E’ possibile adottare tre stili: di evitamento; far finta che non esista con il risultato che il conflitto si cronicizzi e interrompa la comunicazione interpersonale e perciò si deleghi gli esperti in giurisprudenza a stabilire chi ha ragione; uno stile antagonista con il risultato che dopo una guerra distruttiva ci sia un vincitore e un vinto; uno stile collaborativo che accetta il conflitto e lo gestisce alla pari con il risultato di una giustizia compositiva dei confliggenti. In quest’ultima condotta si può riconoscere che il conflitto prima di essere agito può essere pensato e ancora, pensare il conflitto, vuol dire possibilità di parlare dei motivi del contendere, di metacomunicare “di” e “su” questo conflitto e quindi capacità di riconoscere i bisogni dell’altro perché sono i suoi motivi del contendere. In quest’ottica, che ritengo la più rispettosa dei diritti individuali, entrambe le parti hanno diritto al riconoscimento dei propri bisogni, che è poi la soddisfazione degli stessi, intesa come giustizia compositiva.
Sovente chi lo vive non riesce a gestirlo perché troppo coinvolto emotivamente, paralizzato dalla paura del cambiamento, dalla convinzione di avere ragione o colto da spirito vendicativo. Si configura così la necessità di un intervento specialistico, quello del mediatore appunto che conduce “super partes” il percorso di mediazione.
Alla luce di quanto detto possiamo ora capire meglio come la Mediazione nella sua accezione più ampia sia una precisa tecnica strutturata di gestione dei conflitti basata su precise abilità professionali e determinati presupposti teorici ed etici volti a porre fine alla conflittualità in sede stragiudiziale.
Il suo campo di applicazione è ad ampio raggio perché diversi sono i contesti sociali in cui il conflitto può insorgere per cui nell’ambito dei conflitti familiari si parla di Mediazione Familiare.
Cos’è la mediazione familiare
La letteratura ne ha dato diverse definizioni, quella in cui io personalmente mi ritrovo è nel concetto di “relazione d’aiuto che il professionista debitamente formato può offrire alla coppia in una dimensione spazio-temporale”.
Nel tempo quando la coppia attraversa la fase più critica della sua storia evolutiva fatta di anoressia di sentimenti positivi che prelude l’evento separativo. Nello spazio in quanto la coppia viene accolta nella stanza della mediazione (dove si svolgono le sedute), spazio neutro fatto di ascolto empatico.
“Non ci si sposa per separarsi, quando invece accade, la propria separazione rappresenta un gravissimo insuccesso. Questa percezione di fallimento e la necessità di lottare con sentimenti quali disillusione, rabbia, senso di tradimento, inganno, spirito vendicativo, senso di colpa, dolore, paura del cambiamento, autocommiserazione e vittimismo rendono la separazione estremamente difficile”.
Spesso il sentimento che prevale è quello di rivalsa; rifarsi sul coniuge appaga della perdita subita. La presenza di figli porta ad usarli come ostaggi per ottenere qualcosa in più e la vicenda separativa diventa una lotta estenuante.
Ciò di cui la coppia ha bisogno in questo momento non sono soltanto i pareri legali, è proprio nei casi di separazione coniugale, e soprattutto in presenza di figli, che ci si accorge dei limiti normativi della giurisprudenza che non può farsi carico dell’aspetto emotivo-relazionale delle persone coinvolte in questo momento carico di stress.
Le esperienze di Mediazione extra-giudiziaria rappresentano un tentativo di modificare il contesto entro cui trattare le crisi familiari. Il problema è quello di ridurre la conflittualità “pubblica” e di arrivare a una “negoziazione” privata svolta su un piano di realtà; negoziazione che muove dal riconoscimento che al di là degli interessi di contrasto, permane un interesse comune: quello di ridurre la tensione, l’ansia, la conflittualità simbolica, semplificare i tempi e i costi della causa.
L’ammissione del limite del diritto rispetto all’esigenza di riportare una serena convivenza nei rapporti familiari sta a confermare che “la scommessa della MF sia possibile trait d’union tra diritto e psicologia”in materia di conflitto coniugale.
Allora la Mediazione è un’alternativa allo stato di sofferenza che spesso l’inevitabile iter giudiziario rinforza e può essere scelta come percorso da affiancare a quello legale, prima che la separazione legale sancisca uno status occorre elaborare la separazione psicologica altrimenti il destino degli ex partner è un “legame disperante e quello dei figli un dolore confusivo”.
La Mediazione è anche un processo di apprendimento della realtà: è capire e far capire, acquisire nuove conoscenze e competenze. E’ dare spazio a una “giustizia compositiva” perché condivisa e rinnovata, intimamente sentita tale dalle parti in conflitto.
Lo spazio di Mediazione è uno spazio neutro dove le parti in conflitto sentono che possono tirare il fiato, fermarsi un attimo, anche parlare della loro sofferenza, ascoltarsi e ritrovare il senso di ciò che è accaduto ed accadrà: è tornare a ”guidare” la propria vita o perlomeno di provarci ancora.
Il bisogno al quale la Mediazione Familiare cerca di rispondere è quello portato da coppie che, in procinto di separarsi o già separate, vivono una situazione di conflittualità tale per cui non riescono a trovare un modo adeguato per gestire ciò che resta in comune, i figli. Si può essere coniugi separati, ma genitori per sempre.
La Mediazione Familiare si propone come un percorso del tutto volontario durante il quale le persone vengono aiutate, dopo aver identificato le loro istanze e l’oggetto del contendere, a fare esperienza di un nuovo modo di stare insieme, nel rispetto della decisione di non essere più coppia coniugale, ma coppia genitoriale.
Induce gli ex coniugi a trovare soluzioni concordate nel rispetto dei bisogni e delle disponibilità personali e consente alla coppia di trovare per proprio conto le basi di un accordo (riguardante i figli e i beni patrimoniali, accordo che verrà poi formalizzato giuridicamente dall’avvocato che assisterà la coppia avanti gli organi giudiziari competenti (Tribunale ordinario anche in presenza di figli minorenni) durevole e accettabile affinché siano loro stessi a decidere le modalità secondo le quali intendono separarsi ed occuparsi dei figli. “Come insieme ci si sposa così insieme ci si separa”. Obiettivo concreto è la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o dopo la separazione e/o divorzio coniugale, nel rispetto del quadro legale esistente, soprattutto in presenza di figli; l’obiettivo finale si realizza quando il padre e la madre, nell’interesse loro e dei figli, si riappropriano, pur separati, della comune responsabilità genitoriale in un clima di cooperazione e di mutuo rispetto. Si può con una metafora definirla anche un intervento che fa da ponte tra ciò che attiene alla sfera del privato (il versante dei sentimenti psicologicamente espressi) e ciò che appartiene alla sfera del pubblico (il versante dei diritti-doveri regolamentati giuridicamente).
Anche dopo la separazione è possibile continuare ad essere genitori attenti e presenti in modo significativo nella vita dei figli, a patto di essere capaci di accantonare rabbia e delusione verso l’ex partner, per dare spazio ad un dialogo collaborativo e costruttivo nel proprio ruolo di genitori.
A queste condizioni la separazione e il divorzio, per quanto dolorosi, possono essere vissuti non come la fine totale, ma l’inizio di una nuova storia, forse più complicata, più difficile, ma possibile.
In concreto il percorso della mediazione nei casi di separazione e div. può essere utilizzato prima, durante (la fase legale che viene momentaneamente sospesa), dopo (fase post sentenza); si articola mediamente in un massimo di dieci-dodici incontri con cadenza settimanale o quindicinale; quindi è un intervento limitato nel tempo e con finalità pratiche.
Gli invianti possono essere tutti i professionisti che sono impegnati nelle problematiche familiari: avvocati esperti in diritto di famiglia, ora dopo la legge del marzo 2006 “sull’affido condiviso” i
giudici della sezione famiglia, psicologi, psicoterapeuti, purchè tutti rispettosi della propria specificità e competenza di confini.
Concludendo è auspicabile l’“Espansione della cultura e della pratica della Mediazione in tutti gli angoli del mondo”.
La letteratura ne ha dato diverse definizioni, quella in cui io personalmente mi ritrovo è nel concetto di “relazione d’aiuto che il professionista debitamente formato può offrire alla coppia in una dimensione spazio-temporale”.
Nel tempo quando la coppia attraversa la fase più critica della sua storia evolutiva fatta di anoressia di sentimenti positivi che prelude l’evento separativo. Nello spazio in quanto la coppia viene accolta nella stanza della mediazione (dove si svolgono le sedute), spazio neutro fatto di ascolto empatico.
“Non ci si sposa per separarsi, quando invece accade, la propria separazione rappresenta un gravissimo insuccesso. Questa percezione di fallimento e la necessità di lottare con sentimenti quali disillusione, rabbia, senso di tradimento, inganno, spirito vendicativo, senso di colpa, dolore, paura del cambiamento, autocommiserazione e vittimismo rendono la separazione estremamente difficile”.
Spesso il sentimento che prevale è quello di rivalsa; rifarsi sul coniuge appaga della perdita subita. La presenza di figli porta ad usarli come ostaggi per ottenere qualcosa in più e la vicenda separativa diventa una lotta estenuante.
Ciò di cui la coppia ha bisogno in questo momento non sono soltanto i pareri legali, è proprio nei casi di separazione coniugale, e soprattutto in presenza di figli, che ci si accorge dei limiti normativi della giurisprudenza che non può farsi carico dell’aspetto emotivo-relazionale delle persone coinvolte in questo momento carico di stress.
Le esperienze di Mediazione extra-giudiziaria rappresentano un tentativo di modificare il contesto entro cui trattare le crisi familiari. Il problema è quello di ridurre la conflittualità “pubblica” e di arrivare a una “negoziazione” privata svolta su un piano di realtà; negoziazione che muove dal riconoscimento che al di là degli interessi di contrasto, permane un interesse comune: quello di ridurre la tensione, l’ansia, la conflittualità simbolica, semplificare i tempi e i costi della causa.
L’ammissione del limite del diritto rispetto all’esigenza di riportare una serena convivenza nei rapporti familiari sta a confermare che “la scommessa della MF sia possibile trait d’union tra diritto e psicologia”in materia di conflitto coniugale.
Allora la Mediazione è un’alternativa allo stato di sofferenza che spesso l’inevitabile iter giudiziario rinforza e può essere scelta come percorso da affiancare a quello legale, prima che la separazione legale sancisca uno status occorre elaborare la separazione psicologica altrimenti il destino degli ex partner è un “legame disperante e quello dei figli un dolore confusivo”.
La Mediazione è anche un processo di apprendimento della realtà: è capire e far capire, acquisire nuove conoscenze e competenze. E’ dare spazio a una “giustizia compositiva” perché condivisa e rinnovata, intimamente sentita tale dalle parti in conflitto.
Lo spazio di Mediazione è uno spazio neutro dove le parti in conflitto sentono che possono tirare il fiato, fermarsi un attimo, anche parlare della loro sofferenza, ascoltarsi e ritrovare il senso di ciò che è accaduto ed accadrà: è tornare a ”guidare” la propria vita o perlomeno di provarci ancora.
Il bisogno al quale la Mediazione Familiare cerca di rispondere è quello portato da coppie che, in procinto di separarsi o già separate, vivono una situazione di conflittualità tale per cui non riescono a trovare un modo adeguato per gestire ciò che resta in comune, i figli. Si può essere coniugi separati, ma genitori per sempre.
La Mediazione Familiare si propone come un percorso del tutto volontario durante il quale le persone vengono aiutate, dopo aver identificato le loro istanze e l’oggetto del contendere, a fare esperienza di un nuovo modo di stare insieme, nel rispetto della decisione di non essere più coppia coniugale, ma coppia genitoriale.
Induce gli ex coniugi a trovare soluzioni concordate nel rispetto dei bisogni e delle disponibilità personali e consente alla coppia di trovare per proprio conto le basi di un accordo (riguardante i figli e i beni patrimoniali, accordo che verrà poi formalizzato giuridicamente dall’avvocato che assisterà la coppia avanti gli organi giudiziari competenti (Tribunale ordinario anche in presenza di figli minorenni) durevole e accettabile affinché siano loro stessi a decidere le modalità secondo le quali intendono separarsi ed occuparsi dei figli. “Come insieme ci si sposa così insieme ci si separa”. Obiettivo concreto è la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o dopo la separazione e/o divorzio coniugale, nel rispetto del quadro legale esistente, soprattutto in presenza di figli; l’obiettivo finale si realizza quando il padre e la madre, nell’interesse loro e dei figli, si riappropriano, pur separati, della comune responsabilità genitoriale in un clima di cooperazione e di mutuo rispetto. Si può con una metafora definirla anche un intervento che fa da ponte tra ciò che attiene alla sfera del privato (il versante dei sentimenti psicologicamente espressi) e ciò che appartiene alla sfera del pubblico (il versante dei diritti-doveri regolamentati giuridicamente).
Anche dopo la separazione è possibile continuare ad essere genitori attenti e presenti in modo significativo nella vita dei figli, a patto di essere capaci di accantonare rabbia e delusione verso l’ex partner, per dare spazio ad un dialogo collaborativo e costruttivo nel proprio ruolo di genitori.
A queste condizioni la separazione e il divorzio, per quanto dolorosi, possono essere vissuti non come la fine totale, ma l’inizio di una nuova storia, forse più complicata, più difficile, ma possibile.
In concreto il percorso della mediazione nei casi di separazione e div. può essere utilizzato prima, durante (la fase legale che viene momentaneamente sospesa), dopo (fase post sentenza); si articola mediamente in un massimo di dieci-dodici incontri con cadenza settimanale o quindicinale; quindi è un intervento limitato nel tempo e con finalità pratiche.
Gli invianti possono essere tutti i professionisti che sono impegnati nelle problematiche familiari: avvocati esperti in diritto di famiglia, ora dopo la legge del marzo 2006 “sull’affido condiviso” i
giudici della sezione famiglia, psicologi, psicoterapeuti, purchè tutti rispettosi della propria specificità e competenza di confini.
Concludendo è auspicabile l’“Espansione della cultura e della pratica della Mediazione in tutti gli angoli del mondo”.
Dr.ssa Zaira Galli
Psicopedagogista, formatrice, mediatrice familiare, coordinatrice genitoriale, supervisore professionale
http://www.cmf-milano.it/
https://studioardea.it/
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