Scritto del collega Roberto Carnevali pubblicato su "Pratica Psicoterapeutica"
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WORK IN PROGRESS N. 22
1 - 2020 mese di Giugno
Ho
atteso a lungo prima di cominciare a scrivere le mie riflessioni su ciò
che sta accadendo nel mondo e sui risvolti che potrà avere sulla vita
di ciascuno di noi. Ogni giorno succede qualcosa di nuovo, e fermare un
momento specifico è sempre arbitrario, e passibile di ulteriori
cambiamenti di opinione. Se penso che il 14 febbraio, San Valentino,
sono andato, quasi provocatoriamente, con mia moglie a cena in un
ristorante cinese in cui andiamo spesso, che era ancora piuttosto
affollato, sulla scia di quello che molti, anche scienziati, dicevano,
relativamente alla mortalità di una normale influenza che era
equivalente, se non addirittura superiore, a quella del Coronavirus, mi
vengono i brividi.
Sono
passati due mesi da quel giorno, e ciò che veniva scritto, detto e
soprattutto pensato da persone competenti e depositarie della
comunicazione si è trasformato radicalmente, e oggi chi cerca di
minimizzare viene vissuto da tutti coloro a cui è rimasto un po’ di
senno come uno scriteriato che rischia di ostacolare il lento percorso
di recupero che può riportarci a una condizione di “normalità”.
Già,
“normalità”. Un primo punto su cui voglio soffermarmi è l’idea di
normalità. Se già in passato, pensando al lavoro della “cura”, faticavo a
ricondurlo all’idea di un percorso teso al recupero della normalità,
oggi mi sembra che quest’idea sia inconcepibile. Le “norme” che oggi
dobbiamo applicare, perché l’umanità non finisca in rovina, si collegano
a procedure che solo due mesi fa sarebbero state ricondotte a un
disturbo ossessivo compulsivo. Il comportamento corretto e doveroso per
non contagiare e non contagiarsi è quello che viene diagnosticato come
“fobico-ossessivo”. Meglio lavare le mani una volta in più che una volta
in meno; non bisogna toccare le maniglie, stringere la mano, avere
contatti corporei che comportino possibile passaggio di liquidi;
sanitari, asciugamani, bicchieri, posate, tovaglioli... non devono
toccarsi l’uno con l’altro, ciascuno deve avere il suo, e se c’è il
dubbio che ci sia stata una qualche “contaminazione” bisogna lavare,
sterilizzare... Sembra davvero la descrizione dei sintomi del DOC.
E
pensando a certi lavori che fino a tre mesi fa venivano accettati e
cercati da tutti senza problemi, oggi ci dobbiamo chiedere come potranno
mai riprendere ad essere svolti.
Pensiamo
a un parrucchiere, che oggi è fermo, ma si auspica che in un prossimo
futuro possa essere nella condizione, in teoria, di poter riprendere
l’attività: non potrà stare a una distanza di sicurezza dal cliente, e
non potrà evitare di rivolgere il viso verso di lui; dovrà portare la
mascherina ed essere certo, per tutto il tempo in cui si occupa del
cliente, di non starnutire, di non avere lacrimazione agli occhi né
prurito in faccia, e se per caso dovesse capitargli di entrare in
contatto con la propria saliva, le proprie lacrime o il proprio sudore
dovrebbe fermarsi in ciò che sta facendo, togliere la mascherina, i
guanti (che chiaramente deve avere, e che dovrebbe sostituire), lavarsi
il viso, le mani, asciugarsi in un asciugamano monouso che nessun altro
deve usare e riprendere il lavoro sul cliente; e abbiamo visto solo la
parte relativa al corpo del parrucchiere. Veniamo agli strumenti. Le
forbici devono chiaramente essere sterilizzate, e per sicurezza
dovrebbero stare in una busta sigillata e, una volta che la busta è
stata aperta, non devono essere appoggiate su un ripiano o sul
lavandino, ma tenute in mano, senza che tocchino null’altro che i
capelli del cliente fino alla fine del taglio. E il lavaggio? Alcuni lo
fanno prima del taglio, altri dopo, altri prima e dopo. In ogni caso si
pongono problemi di vario genere. È impossibile, lavando i capelli e
asciugandoli, non entrare in contatto con parti del viso che possono
avere residui di microgocce di liquido lacrimale o salivare;
l’asciugamano per la prima asciugatura (a cui segue l’uso del phon) è
inevitabilmente potenzialmente infetto, e dunque non solo va buttato in
un contenitore da cui poi verrà preso per essere sterilizzato, ma
comporta anche un cambio di guanti e un lavaggio delle mani, a cui
seguirà l’asciugatura con il phon, nella quale si dovrà avere
un’attenzione minuziosa, soprattutto se la persona ha una lunga e folta
capigliatura, a che questa non entri mai in contatto con il phon, o il
casco, o lo strumento che comunque viene usato per l’asciugatura, e
tutte le superfici che entrano in contatto coi capelli e le parti del
corpo del cliente devono, per sicurezza, essere sterilizzate tra un
lavaggio e l’altro. Se per caso, come spesso accade, il parrucchiere
ritiene opportuno un piccolo ritocco del taglio dopo l’asciugatura, deve
prendere un altro paio di forbici sterilizzate e, dopo un ulteriore
cambio di guanti e lavaggio di mani, procedere all’operazione. Se il
parrucchiere ha un’allergia da pollini o un semplice raffreddore, e
nella mezz’ora, o più, del lavoro starnutisce, ha lacrimazione o altro,
le operazioni si moltiplicano, intrecciandosi con le potenziali
contaminazioni dovute a ciò che di volta in volta si sta facendo. Non
continuo. È chiaro che c’è di che impazzire.
Ho
molti amici nel mondo del teatro. In quest’ambito, il pensiero di un
ritorno alla normalità non è percorribile. Un’amica attrice, a mo’ di
amara battuta, diceva che nella prossima stagione si potranno
rappresentare solo monologhi in sale enormi riempite (si fa per dire)
per meno di un quarto della loro capienza. In sostanza non si potrà
riprendere. Il genere di spettacoli sarebbe estremamente ripetitivo e
gli incassi non arriverebbero a coprire che una parte infinitesima delle
spese, portando tutte le sale alla chiusura definitiva.
Credo che questi due esempi siano più che sufficienti.
Ma
non sono questi aspetti a giustificare l’affermazione che niente sarà
più come prima, o almeno non solo questi. Ci sono lavori, e lo
psicoterapeuta è fra questi, che svolti di persona nel contesto
abituale di uno studio comportano misure di sicurezza che scoraggiano
l’idea di essere intrapresi, ma che hanno la possibilità di essere
svolti a distanza con l’uso degli strumenti che la tecnologia
informatica ci mette a disposizione.
Si
tratta quindi di adattare il setting trasferendolo in una modalità
nella quale alcuni aspetti diventano di necessità virtuali, ma dove sia
possibile mantenere saldi alcuni elementi basilari che mantengano
inalterate la natura e la qualità della prestazione. Su questo molto si è
scritto quando il virtuale rappresentava un’opportunità che alcuni di
noi concedevano a se stessi e ai pazienti in circostanze particolari, e
che altri invece rifiutavano o non consideravano percorribile in nome di
una “purezza” del setting che oggi, a mio avviso, non può non essere
riconsiderata in altri termini, non solo nella logica di “fare di
necessità virtù”, ma anche nella prospettiva di accogliere nella tecnica
psicoterapeutica in generale, e psicoanalitica in particolare, la
possibilità di usufruire di strumenti che ormai sono entrati a far parte
a buon diritto del nostro contesto di vita quotidiana, e che possono
estendere, senza snaturarla, l’applicazione della psicoterapia a
situazioni nelle quali, solo fino a poco tempo fa, tale applicazione
sarebbe risultata impensabile. Ma non è di questo che voglio parlare in
questo contesto, ritenendo che l’argomento meriti di essere trattato
ampiamente in uno scritto ad esso dedicato.
La
maggior facilità di applicazione della psicoterapia nella situazione
attuale rispetto ad altre attività lavorative mette lo psicoterapeuta in
una condizione privilegiata, nella quale può avere accesso a vari
contesti relazionali e ai problemi che i pazienti vivono in tali
contesti, letti dal loro vertice ed espressi in una richiesta d’aiuto.
Tra
i temi su cui ho potuto riflettere in ormai più di un mese di sedute
online fatte in varie forme (Skype, Videochiamata WhatsApp, Zoom per i
gruppi, e anche telefono senza video) voglio sottolinearne uno in
particolare, che ho messo in evidenza nel titolo di questo scritto.
Parafrasando Garcia Marquez, che usa la stessa espressione riferita al
colera, ho voluto focalizzare l’attenzione sul tema dell’amore come
elemento centrale non solo della vita in generale, ma in particolare di
questo momento storico dell’umanità.
L’aiuto
che viene richiesto in questo momento è per alcuni rivolto all’interno
di se stessi, con un mantenimento della continuità autoreferenziale che
fa del Coronavirus e di ciò che si muove intorno un’occasione per
rinforzare le proprie barriere difensive in relazione ad un mondo
vissuto come insidioso e fonte di pericoli da cui bisogna preservarsi.
Per
altri è invece un’occasione per prendere consapevolezza di quanto
ciascun essere umano sia immerso in una comunità di persone per la quale
può essere fonte di pericolo, ma anche, avendo cura di riflettere sulla
portata del proprio “essere al mondo” in relazione agli altri,
rappresentare la possibilità di condividere in una forma nuova.
Il
trovarsi esposti al paradosso dell’astenersi da forme di contatto
corporeo potenzialmente fonti di contagio come espressione di un amore
che sa andare “oltre”, ha introdotto nei rapporti umani una forma
d’amore nuova e, a mio avviso, estremamente feconda.
Nella
perenne dicotomia tra l’amore per se stessi e quello per gli altri, che
può essere superata e ricomposta attraverso il costituirsi di un “noi”
che fonda un’alleanza costruttiva, la condizione nella quale tutti ci
troviamo ci invita a valutare la portata di ogni nostro gesto in
funzione del riverbero che ha nella vita degli altri. Giungiamo
finalmente a capire che “non possiamo amare noi stessi se non amiamo gli
altri”.
Da
non credente, mi trovo in questi ultimi tempi a ritenere
straordinariamente ricchi e fecondi gli interventi di Papa Francesco.
L’idea dell’amore di Dio che ci propone è profondamente umana,
immanente, e non necessita di alcuna trascendenza per essere concepita e
condivisa.
Niente
sarà più come prima se sapremo “amarci gli uni gli altri”, e sarà
attraverso questo amore che va al di là degli egoismi (non metto nella
parola alcuna implicazione morale) che potremo affrontare e sconfiggere
il virus che si annida fra di noi. E se questo potrà costituire una
metafora di come possono essere affrontati e sconfitti altri virus che
si annidano nella mente di ciascuno, niente sarà più come prima perché
sarà meglio di prima. E anche qui, oltre all’inevitabile implicazione
morale, voglio evidenziare l’aspetto di fecondità che tale
trasformazione potrebbe portare.
Mi
fermo qui, offrendo questo spunto di riflessione a un dibattito che
spero allarghi il discorso anche ad altri temi, ritenendo comunque che
questo sia fondamentale.
di Roberto Carnevali
24/04/2020
Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia
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