Riporto sul mio blog l'interessante scritto della collega Cinzia Crosali (Presidente dell'Apsi, Associazione Psicologi Italiani in Francia) sulle ripercussioni psicologiche in relazione al Covid19.
Quali sono state le ripercussioni psicologiche del confinamento, quali le conseguenze della limitazione di libertà nel nostro quotidiano? Posso parlane a partire dal mio osservatorio clinico, quello del mio studio e dell’ascolto dei miei pazienti, ma anche da quello dell’APSI, l’associazione degli psicologi italiani a Parigi e in Francia, di cui sono presidente, che ha offerto un sostegno psicologico gratuito, ai connazionali in difficoltà durante il periodo di crisi sanitaria.
Fin dai primi giorni dell’emergenza Covid-19, ho colto una grande differenza nel modo di reagire delle persone. Dalla massima ed esagerata disinvoltura e inosservanza delle regole, all’estrema ansietà, e impossibilità di uscire di casa, neppure nell’ora consentita. Entrambi questi due estremi rappresentano le due facce di uno stesso meccanismo di difesa che si declina differentemente. Esse implicano anche una forma di regressione, una posizione a volte infantile di sfida o di sottomissione assoluta. Tra queste polarità si situano tutte le varianti delle reazioni, con gradi diversi di ansia, depressione, e gestione emozionale.
Un discorso particolare va fatto per coloro che sono stati colpiti direttamente dal virus o che hanno avuto familiari contagiati o che addirittura hanno vissuto dei lutti. La malattia propria o dei propri cari è già, in sé, una privazione di libertà. Il corpo è costretto a fermarsi, e è consegnato nelle mani di altri. In questo caso poi la malattia è intrecciata a un’alta probabilità di morte, quindi generatrice di ansia e paure inedite. Ho ascoltato persone che hanno avuto congiunti in ospedale, in coma per parecchi giorni e settimane. Di fronte a una situazione così irreale, improvvisa e incontrollabile, nessuno di noi ha i codici già predisposti per reagire, per comprendere, e mi includo anch’io in questa esperienza, avendo avuto un fratello contagiato, ricoverato in rianimazione. E’ inconsueto e doloroso non poter far visita ai propri congiunti in ospedale, non poterli accompagnare nella malattia, non vederli, non toccarli, non abbracciarli. Il distanziamento sociale sanitario ha vietato i gesti di affetto più elementari, e soprattutto ha reso impossibili, per un lungo periodo, i riti funebri a coloro che hanno vissuto un lutto. Il divieto dei funerali ha prodotto una grave fragilizzazione della dimensione simbolica. I rituali, le sepolture dei defunti, le cerimonie, hanno da sempre la funzione importantissima di bordare simbolicamente ciò che non è mentalmente rappresentabile : il reale della morte. Quando non si hanno i codici a disposizioni, bisogna costruirli, inventarli, riformulare l’architettura dei punti di riferimenti, perché ci si trova davanti all’inedito, allo sconosciuto, ed è in quel momento che scatta la paura.
Un altro punto importante è la dimensione della temporalità: la limitazione dello spazio genera immediatamente una deformazione del tempo, della sua percezione rispetto al futuro. Per alcuni il tempo si è dilatato, per altri si è ristretto, si è accelerato o si è fermato. Il nostro modo di vivere la temporalità incide sulla possibilità di proiettarci nel futuro, di progettare la nostra vita. L’assenza di una data che annunciasse la fine della crisi, ha prodotto una sensazione angosciante di perennità, di immobilità senza fine. Gli enunciati dei pazienti che ascoltavo erano punteggiati dalle parole : per sempre, mai, mai più: “sarà così per sempre, non sarà mai più come prima, non finirà mai, non rivedrò più la mia famiglia, non ci sarà mai la fine, dovremo sempre stare chiusi in casa”. Quando il tempo che ci separa da un obiettivo diventa una voragine senza fine, scivolare nella disperazione è una delle risposte psichiche possibili. Per molti l’incertezza del “grande Altro” è stata fonte di angoscia: quando i governanti e gli scienziati non danno più garanzie, o danno risposte contradditorie, la protezione simbolica comincia a franare.
Questo punto ci conduce a un’altra riflessione: l’effetto depressivo durante e dopo il confinamento, per molti è legato, più che alla privazione di libertà, a questo franare dei punti di riferimento, il franare della propria fiducia nelle istituzioni deputate alla protezione e alla sicurezza e in particolare la constatazione che la scienza non è onnipotente. La nostra epoca ha dato al sapere scientifico un potere enorme. L’etichetta di “scientificamente provato” sembrava essere la garanzia totale contro ogni dubbio, contro ogni rischio. Abbiamo toccato con mano che la scienza può vacillare, balbettare, non sapere, abbiamo visto i ricercatori scientifici, i virologi, farsi la guerra, a colpi di accuse, denunce, ritrattazioni. L’attuale crisi sanitaria ci insegna almeno questo: che “scientificamente provato” non può essere la nuova religione, non ha una potenza oracolare, e che non c’è la soluzione divina e omnisciente. Questa costatazione ha prodotto in molti casi effetti psicologici di precarietà, paura, smarrimento, depressione.
L’obbligo di distanziamento sociale ci ha mostrato, nel caso ci fossero stati dei dubbi, quanto sia importante la presenza del corpo nelle relazioni, negli incontri. Il corpo, la possibilità di toccarsi, di abbracciarsi, ma anche gli odori, i gesti, lo sguardo, danno, in presenza, una ricchezza non comparabile agli incontri virtuali sulle piattaforme numeriche. Sappiamo che il bambino senza la presenza del corpo della madre, senza il contatto della pelle, il calore del corpo, non ha uno sviluppo adeguato. René Spitz negli anni 60, lo aveva dimostrato nelle sue ricerche sui neonati abbandonati in orfanatrofi. Sebbene fossero curati e sfamati, i bambini deperivano fisicamente in assenza di una relazione intima e privilegiata con una figura veramente materna. Anche gli adulti hanno bisogno di un legame sociale incarnato nelle presenze reali. Le persone che vivono sole, soprattutto a Parigi, dove molti célibataires abitano in piccoli monolocali, hanno sofferto ancora di più. Solitudine e isolamento, non sono buoni ingredienti per la salute psichica: molteplici sintomi come la caduta dell’umore, l’irritabilità, l’insonnia, l’inappetenza o la voracità, fino al crollo psichico, si sono moltiplicati secondo la struttura psicologica di ciascuno. Le persone più a rischio sono state quelle che presentavano una precedente fragilità: i fobici da contatto, gli ipocondriaci, e tutta la serie ampia di nevrosi d’ansia e di stati d’angoscia. Pensiamo anche alla problematica delle persone anziane, che hanno vissuto un declino non solo psicologico, ma anche fisico, nella situazione di isolamento prolungato.
Questa crisi è stata un trauma sia a livello collettivo che individuale. A livello collettivo ha rivelato l’insostenibilità di un’organizzazione sociale basata sul profitto e sull’interesse; a livello individuale ha rivelato le nostre debolezze, nevrosi, ansie e paure. Ogni trauma rivela le debolezze precedenti di ciascuno ed è interessante notare che queste fragilità a volte sono state intensificate, altre volte ridotte. Paradossalmente alcuni miei pazienti hanno vissuto il confinamento come un momento di pacificazione dei sintomi, un momento in cui si sono sentititi per la prima volta come tutti gli altri, o per meglio dire hanno sentito che gli altri erano uguali a loro, con le loro stesse paure, solitudini e isolamenti. Per alcuni, stare in casa è stato un alibi per giustificare la propria tendenza alla chiusura, la propria inibizione e fobia sociale. Si sono sentiti legittimati nei loro sintomi e finalmente dispensati dal peso di aspettative performanti. Infine nelle nevrosi d’ansia, la possibilità di focalizzare la tensione su un punto preciso, quello della paura del contagio, ha permesso di liberare altri spazi di vita e di pensiero. Per alcuni la difficoltà non è sorta per la mancanza di libertà, ma è sopraggiunta nel momento del de-confinamento, nel momento della restituzione della libertà e della responsabilità di come usarla. Anche la libertà ritrovata può essere ansiogena.
Il sintomo più diffuso e provato da molti è stato una sensazione di grande fatica psichica e fisica. Nell’après-coup del trauma c’è una sorta di scossa, di risveglio, che può essere molto ansiogeno. Questi disturbi sono repertoriati dal DSM5 (il manuale diagnostico dei disturbi psichici) con il nome di “Disturbo da stress Post traumatico”, una definizione che vorrebbe essere esaustiva, ma che nella sua generalità non specifica come ciascuno reagisce al trauma, per questo occorre analizzare i sintomi, mettendoli a confronto con la propria singolarità e con la propria storia. Quando la libertà di movimento è stata restituita, qualcuno ha provato una riluttanza a uscire, a ricominciare le attività, a incontrare gli altri. E’ stata definita “la sindrome della capanna”: il fuori diventa ostile, ma non solo per il rischio del contagio (questo è piuttosto un alibi), ma per una sensazione di fatica e d’inerzia inedita, una tendenza ad apprezzare sintomaticamente la chiusura, la tana, il rifugio. Si tratta di una forma sintomatica che assomiglia alla sindrome degli adolescenti giapponesi, denominata Hikikimori, che descrive l’attitudine di questi ragazzi a stare volontariamente chiusi nelle loro camere, per mesi, anche per anni, rifiutando ogni contatto esterno che non sia virtuale.
Vorrei evocare altri due punti cruciali di questo periodo: la violenza coniugale o domestica e lo stress del telelavoro. Perché il confinamento ha aumentato la violenza domestica? Anche in questo caso il confinamento è stato un rivelatore, una cartina al tornasole, che ha spinto all’estremo la buona salute o la patologia della coppia o del nucleo familiare. Se le coppie solide hanno trovato in questa limitazione di libertà un’occasione di incontro più intenso e di maggiore complicità, le coppie già in crisi, già logorate, costrette alla coabitazione prolungata, hanno rotto anche il fragile equilibrio che ancora permetteva loro di esistere, sono andate in pezzi, trasformando la rabbia e l’ansia in violenza verbale e fisica. Il telelavoro, in questi casi ha contribuito al logorio quotidiano, producendo invasioni tra la sfera pubblica e quella privata, non permettendo uno stacco tra il dentro e il fuori, prolungando, dilatando e sovrapponendo gli spazi della vita quotidiana. La sovrapposizione di più attività svolte contemporaneamente: la cura dei bambini 24 ore su 24, il peso dell’organizzazione della casa, più il lavoro on-line, può creare una miscela esplosiva se l’equilibrio è già fragile.
Il telelavoro merita un’osservazione supplementare: molte persone lo hanno inizialmente apprezzato e poi detestato, provando una stanchezza superiore a quella abituale. Altri invece si sono talmente adattati che hanno temuto che il confinamento finisse troppo presto, paventando la necessità di dover di nuovo uscire da casa tutti i giorni, entrare nelle metropolitane, attraversare la città, passare ore negli uffici. Da una parte c’è il rischio che una nuova lassitudine si installi, con il rifiuto di ogni sforzo e movimento, dall’altra c’è la produzione di un rovesciamento del concetto di libertà. Molte persone infatti vorrebbero essere libere di scegliere di stare a casa, piuttosto che essere obbligate a starci, vorrebbero continuare la modalità del telelavoro, o vorrebbero un sistema misto, in cui sia comunque contemplata la loro libertà di scelta. Questa crisi potrà forse lasciare più spazio a modalità innovative dell’organizzazione del lavoro. A chi è impaziente di ritrovare la vita di prima, rispondo che io spero di no, e che in molti casi, la vita di prima, andrebbe cambiata. Andrebbe resa più vivibile, meglio organizzata, non solo per le attività amministrative e per il lavoro d’ufficio, ma anche per quello della sanità, della scuola, della ricerca… La speranza è che riusciamo a fare di questa crisi un’occasione di rilancio e non di ripiego.
Vorrei terminare con una riflessione sulla questione della paura. E’ il sentimento più generalizzato che tutti, più o meno, abbiamo provato durante la crisi sanitaria. E’ una reazione naturale, che ci serve per stare all’erta, per mettere in atto i meccanismi di difesa di fronte alle minacce. Quello che non è accettabile è che la paura sia strumentalizzata, soprattutto a livello delle politiche sociali. A livello individuale, il problema non è la paura, ma la sua trasformazione in angoscia, in crisi di panico, in caduta depressiva. La paura in sé, ha invece un ruolo naturale e ci permette di trovare il coraggio. La filosofa Cyntia Flory, dice giustamente che non c’è coraggio senza paura, il coraggioso non è un super eroe, ma è qualcuno che ha paura, che ha la consapevolezza della sua paura e che punta al suo superamento. Il coraggio in questa crisi è anche nella tolleranza del rischio. Tolleranti anche verso se stessi, verso i propri limiti. La società vorrebbe una vita senza rischi, una vita a rischio zero, dove la sicurezza e la protezione dovrebbero essere i valori prioritari a qualsiasi prezzo. E’ un concetto discutibile. Forse l’eccesso di zelo rispetto alla regola, impedisce di cercare e creare delle alternative, impedisce di regolare la scelta sull’etica. Il rischio riguarda la perdita, la domanda angosciante nelle scelte è spesso: “che cosa ci perdo, che cosa ci guadagno?” La psicanalisi ci insegna che in una scelta c’è una parte di perdita alla quale occorre acconsentire. Questi sono gli aspetti fondamentali della libertà: l’impossibilità di escludere il rischio, e l’incompatibilità con la sicurezza assoluta. In questa crisi è importante rispettare le misure di prevenzione e di protezione, ma questo solo in una logica provvisoria, proiettati verso una dimensione dove il rischio zero di salute e di sicurezza non solo non è possibile, ma non può neppure essere l’unica priorità. L’atteggiamento psichico con cui si rispettano le limitazioni è l’elemento decisivo per non cadere della depressione e nell’angoscia. La responsabilità di ciascuno è la base indispensabile per l’invenzione di nuove forme di vita che non siano improntate solo all’isolamento totale. Si può proteggere se stessi e gli altri e rispettare le misure sanitarie con un sentimento di disperazione e di morte, o lo si può fare con lo sguardo rivolto al futuro, alla speranza, alla vita. Quando la prima disposizione prende il sopravvento, sarà inevitabile una paralisi del desiderio, delle pulsioni, della vita, e quindi anche della libertà.
Cinzia Crosali
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