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Condivido uno scritto della collega Cinzia Crosali dell'APSI, sempre sul tema del bilinguismo.
Bilinguismo: una risorsa o un ostacolo?
Tra i consueti timori di inizio d’anno
scolastico dei connazionali che vivono in Francia, o comunque
all’estero, c’è un interrogativo frequente: “parlare due lingue, è un
vantaggio o uno svantaggio nel processo dell’apprendimento?”
Sono soprattutto i genitori dei bambini
più piccoli a porsi questo interrogativo. Esporre un bambino piccolo a
più idiomi che conseguenze può avere? Il bilinguismo è una ricchezza o
un inciampo nello sviluppo del linguaggio e quindi per l’evoluzione
cognitiva?
Prima di tutto: che cos’è il
bilinguismo? E’ considerato bilingue colui che padroneggia due o più
lingue con le stesse competenze e capacità di una persona madrelingua. È
questa la caratteristica di bambini cresciuti in ambienti in cui l’uso
di più lingue è simultaneo.
Bilingui sono quindi gli individui che
hanno due sistemi linguistici paralleli e indipendenti e che non hanno
bisogno di tradurre da una lingua all’altra.
Il linguista Renzo Titone definisce il
bilinguismo come “la capacità di un individuo di esprimersi in una
seconda lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a
tale lingua sono propri, anziché parafrasare la lingua nativa”(1). La
sua analisi del fenomeno lo porta a distinguere fra : bilinguismo
bilanciato e no, bilinguismo primario e secondario, precoce o tardivo,
ecc. (2)
Molteplici sono le distinzioni perché il
bilinguismo è un fenomeno complesso e multifattoriale in cui entrano in
gioco variabili diverse: l’età di acquisizione, le interferenze, le
dominanti, i registri linguistici, i contesti, gli aspetti cognitivi,
culturali, familiari, i fattori emotivi e psico-affettivi.
La domanda che genitori e insegnanti si
pongono riguarda i rapporti del bilinguismo con lo sviluppo e con
l’apprendimento. Si chiedono se l’interferenza di una seconda lingua
ostacoli i processi cognitivi. La nostra risposta è “no, anzi!”. Le
ricerche tendono a confutare questa ipotesi di interferenza negativa.
Nei soggetti bilingui e multilingui si
sono riscontrati risultati superiori a livello cognitivo e mnestico (3).
Per esempio nelle prove piagetiane della ricostruzione percettiva,
nella individuazione di correlazioni simboliche, nella risoluzione di
problemi logici, i soggetti bilingui produrrebbero migliori prestazioni.
Essi avrebbero, a loro vantaggio, una
maggiore plasticità del pensiero e quindi una maggiore flessibilità
delle funzioni cognitive. Questo sembrerebbe sfatare il pregiudizio
inerente a interferenze prodotte dall’introduzione di una seconda
lingua nella prima infanzia.
Naturalmente tutto questo è vero in caso
di bambini che non presentino ritardi dello sviluppo psicofisico, o
problematiche affettive tali da ostacolare la crescita e la relazione
con il mondo esterno, indipendentemente dal bilinguismo.
Noi riteniamo che, esclusi i casi sopra
citati, i bambini bilingui capendo rapidamente che esistono più suoni,
più parole per indicare una cosa, imparano fin da piccoli ad avere una
visione pluridimensionale della realtà, e ad acquisire un relativismo
nominale e quindi una maggiore disponibilità al nuovo, alla diversità e
alla relatività in generale.
Passare da una lingua all’altra è una
ginnastica automatica che bambini molto piccoli sanno fare con
sorprendente abilità, infatti essi si rivolgono in modo spontaneo ad
adulti di diverso idioma, usando la lingua appropriata, quella con cui
l’adulto parla loro.
Così se i genitori sono di madrelingua
differente, il bambino userà spontaneamente le due lingue in modo
alternato e pertinente. La lingua infatti non viene dal bambino, ma
dall’adulto. Il bambino la restituisce. Jacques Lacan diceva che il
linguaggio ci precede, nel senso che noi nasciamo in un bagno di
linguaggio che esiste prima di noi.
Una madre italiana mi ha raccontato che
il suo bambino di tre anni, dopo aver parlato al telefono in francese al
padre, ritornando spontaneamente a parlare in italiano alla madre che
lo teneva in braccio, esclamò: “che bello, una lingua viene su e
un’altra va giù!”, toccandosi la sua lingua in bocca.
Non poteva esprimere meglio la teoria
lacaniana: più che parlare, il soggetto “è parlato” da una lingua. È
come se il bambino non decidesse, ma si trovasse a parlare con la lingua
dell’altro, e ne fosse lui stesso piacevolmente sorpreso.
Inoltre l’apprendimento secondario di
una lingua straniera non sembra essere correlato all’intelligenza.
Persone con alto livello intellettivo possono avere difficoltà e
resistenze ad imparare le lingue straniere. I fattori ostacolanti non
sono quelli intellettivi, si tratta piuttosto di fattori ansiogeni,
affettivi, di inibizione, di identificazioni valorizzanti o
svalorizzanti, ecc… Una parola nuova implica un riassetto globale delle
reti associative e dell’investimento affettivo.
Ricordiamo che Levi-Strauss, diceva che
non pensiamo alla stessa cosa quando usiamo, in due lingue diverse, due
parole che vogliono tuttavia dire la stessa cosa. Per esempio scriveva:
“Per me che ho parlato esclusivamente inglese per certi periodi della mia vita, pur senza essere bilingue, fromage e cheese vogliono certo dire la stessa cosa, ma con sfumature differenti. Fromage evoca una certa pesantezza, una materia untuosa e poco friabile, un sapore denso.
È una parola particolarmente adatta a designare quel che i lattai chiamano ‘paste grasse’; mentre cheese,
più leggero, fresco, un po’ aspro e che svanisce sotto i denti (si
pensi alla forma dell’orifizio boccale nella pronuncia della parola), mi
fa immediatamente pensare al formaggio bianco. Per me il ‘formaggio
archetipo’ non è dunque, a seconda che io lo pensi in francese o in
inglese, il medesimo” (4) (Lévi-Strauss 1958:110).
La traduzione non è fatta di rapporti
biunivoci regolati una volta per tutte dal dizionario bilingue, ma
comporta una complessità di variabili percettive, mnestiche, sensoriali e
affettive che sono diverse da individuo a individuo.
Anche l’esperienza di vita di chi impara
una seconda lingua ha un ruolo essenziale: non è la stessa cosa
l’apprendimento del francese per i nostri ragazzi italiani trasferiti
con la famiglia a Parigi, rispetto alle condizioni di apprendimento
delle nuove lingue da parte dei migranti profughi nordafricani o
mediorientali, che arrivano in continuazione in Europa.
Le parole trasmettono sapori,
sensazioni, emozioni, ricordi, ma non dimentichiamo che sono fatte di
sonorità. Hanno una risonanza, sono fatte di suoni, le parole hanno una
forma acustica, sono fonemi che scivolano da una lingua all’altra
tendendo trabocchetti di significati e sovrapposizioni.
Mi riferisco al problema delle
interferenze che avvengono tra lingue che si assomigliano come
l’italiano e il francese. Gli insegnanti di lingua straniera conoscono
l’incidenza dei cosiddetti “falsi amici” nell’apprendimento delle
lingue.
Tra il francese e l’italiano essi sono
numerosi e creano spesso equivoci e malintesi, o anche situazioni
imbarazzanti, come quella che accadde a un ragazzo italiano, che
corteggiando una ragazza, le disse: “ta peau est si morbide !”(5), e rimase stupito della smorfia di disappunto della fanciulla.
Parole francesi come morbide, caleçon, cantine, costume, ferme, salir, gâteau…
e tante altre, se usate maldestramente, possono creare situazioni
comunicative fastidiose o divertenti a seconda del contesto.
La psicoanalisi, in quanto pratica
centrata sul linguaggio, si è naturalmente interessata al bilinguismo.
Anzi si può dire che l’invenzione di Freud è proprio basata sull’analisi
di una “lingua straniera”: la lingua dell’inconscio. Una lingua che
occorre decifrare e tradurre ogni volta che si presenta nelle sue
produzioni bizzarre: i lapsus, gli atti mancati, i sintomi, i sogni…
E’ interessante chiedersi perché per
alcune persone imparare una lingua straniera è relativamente facile e
per altre quasi impossibile. Che cosa significa “essere o non essere
portati per lingue”. Si tratta di una disposizione innata o dipende dal
contesto di crescita?
Noi pensiamo che imparare una lingua
straniera significhi accettare di cedere, di perdere qualcosa. L’adulto
che impara una lingua straniera ha la sensazione di regredire a una
condizione infantile, una sensazione che può produrre insicurezza e
resistenza.
Opporsi alla lingua straniera
diventerebbe un modo di difendere la propria identità profonda, come se
questa fosse esprimibile soltanto attraverso la lingua madre. Infine i
processi di individuazione e separazione che avvengono nel rapporto tra
il bambino e la figura materna, non sono estranei al rapporto del
bambino con il linguaggio in generale, e con l’apprendimento delle
lingue straniere in particolare.
Imparare a parlare significa far passare
le soddisfazioni pulsionali sotto le forche caudine del linguaggio. Non
si è più nutriti, scaldati, curati, automaticamente, ma bisogna
chiedere, domandare, parlare. La frustrazione e la fatica che ciascuno
ha dovuto attraversare per imparare a parlare è rinnovata
nell’apprendimento della seconda lingua.
Qualche volta invece, la seconda lingua
diventa un salvagente, una risorsa che permette di fuggire da un nucleo
ansiogeno troppo forte, contenuto nell’uso della lingua madre.
Nel mondo delle lingue comunque il
fattore affettivo è sempre presente, perché parlare significa essere in
relazione, confrontarsi con l’altro. Il fattore affettivo è quindi il
cardine dell’identificazione, della fiducia in sé stessi, del coraggio
di correre rischi in ogni forma relazionale, il fattore affettivo in
definitiva è ciò che permette, come diceva quel bambino di tre anni,
che, “una lingua vada giù e che un’altra venga su”, in modo spontaneo e
disinibito.
Di Cinzia Crosali