Il progetto Soremax

Benvenuti nel mondo di Soremax, dove tre persone appassionate si sono incontrate per creare un nuovo progetto. Scoprite i percorsi unici e complementari di Giovanni Sorrentino, Massimo Felici e Armando Olivella, riuniti da una visione comune: offrire sostegno e speranza alle persone che soffrono di disturbi alimentari. La loro esperienza in biologia, psicologia, comunicazione visiva e marketing operativo si unisce per formare un team dedicato ad assistere gli adolescenti e le loro famiglie attraverso un protocollo esclusivo, il protocollo Soremax.

Il progetto Soremax nasce per colmare il vuoto relativo alla mancanza di momenti di confronto e scambio empatico, per i soggetti sofferenti di anoressia ed i loro familiari. A tale scopo Soremax propone piccoli gruppi di ascolto e consapevolezza per dare parola alla sofferenza, condividerla e intraprendere un percorso di guarigione nella totale libertà di espressione e assenza di costrizioni o forzature.

I gruppi saranno tenuti da Massimo Felici, un esperto psicoterapeuta con oltre vent'anni di esperienza nel trattamento dei disturbi dell'alimentazione e da Giovanni Sorrentino, un biologo formato in Comunicazione non Violenta (metodo Marshall Rosemberg) che ha maturato un'esperienza nell'ascolto empatico con soggetti anoressici.

Gli incontri avverranno dapprima in video conferenza poi in presenza. Come potrete leggere sul sito Soremax i gruppi si terranno sia in lingua italiana che in francese, con sessioni dedicate e con il calendario proposto.

Per ulteriori informazioni ed iscrizioni cliccate qui. Buona lettura


 

Bienvenue dans le monde de Soremax, où trois passionnés se sont réunis pour créer un nouveau projet. Découvrez les parcours uniques et complémentaires de Giovanni Sorrentino, Massimo Felici et Armando Olivella, réunis par une vision commune : offrir soutien et espoir aux personnes souffrant de troubles alimentaires. Leur expertise en biologie, psychologie, communication visuelle et marketing opérationnel converge pour former une équipe dédiée à aider les adolescents et leurs familles à travers un protocole exclusif, le protocole Soremax.

Le projet Soremax vise à combler le vide lié au manque de moments de confrontation et d'échange empathique pour les personnes souffrant d'anorexie et leurs familles. À cette fin, Soremax propose de petits groupes de discussion et de sensibilisation pour donner une voix à la souffrance, la partager et entreprendre un parcours de guérison dans une totale liberté d'expression et d'absence de contraintes ou de pressions.

Les groupes seront animés par Massimo Felici, un expert psychotérapeute avec plus de vingt ans d'expérience dans le traitement des troubles alimentaires, et par Giovanni Sorrentino, un biologiste formé à la Communication non Violente (méthode Marshall Rosemberg) qui a acquis de l'expérience dans l'écoute empathique des personnes anorexiques.

Les réunions auront lieu d'abord en vidéoconférence, puis en personne. Comme vous pourrez le lire sur le site Soremax, les groupes se dérouleront aussi bien en italien qu'en français, avec des sessions dédiées et un calendrier proposé.

Pour plus d'informations et pour vous inscrire, cliquez ici. Bonne lecture !

 

 http://soremax.org/

 

 



 


 



I disturbi alimentari

© Foto Victoria Shes su Unsplash
I disturbi alimentari sappiamo bene sono un grande cruccio per moltissime persone e relative famiglie oltre che un problema "sociale".

Disturbi alimentari o disturbi del comportamento alimentare sono termini che raggruppano modalità diversissime di approccio al cibo, al mangiare. La più conosciuta (e pericolosa dal punto di vista clinico) è l'anoressia di cui si parla da molti anni. Inizialmente appannaggio (!) delle ragazze, adolescenti o giovani donne, ma sempre più connotato anche al maschile. Non solo, si sta sia abbassando che innalzando l'età delle persone sofferenti: non è raro osservare bambini che hanno marcate "difficolta" con il cibo come persone "ben mature". 

Poi si è aggiunta la bulimia o l'alternanza tra periodi di restrizione di cibo con momenti di cedimento con le abbuffate seguite (non sempre) dal vomito autoindotto per "regolare" il peso in eccesso.

Il tutto nel paradosso che nelle "società occidentali" si trova di tutto, dal cibo spazzatura (no comment) agli alimenti più raffinati e sani. 

Va da se che per molti anni solo i medici si sono occupati dei disturbi alimentari, con la ferma convinzione che tale sofferenza andasse curata sul piano alimentare con indicazioni, suggerimenti, "messe a punto" caloriche per far tornare la persona ad un peso adeguato e che la mettesse fuori pericolo. Gli scarsi risultati hanno convinto i medici a "copiare" il dispositivo di cura sulla falsariga delle comunità terapeutiche per i tossicodipendenti. Centri o cliniche ove erano "rinchiuse" le persone, seguite passo passo perchè mangiassero e, giusto per non lasciarle tutto il giorno a vagare annoiate per le stanze, qualche attività come pittura o musica. 

Anche qui pochi buoni risultati per tutte le esperienze (praticamente sovrapponibili) a livello dei paesi europei. Nel senso che se nel corso del ricovero la persona poteva anche prendere un po' di peso e correggere i parametri biologici, appena uscita con grande facilità tornava a non mangiare.

In parallelo, sommessamente, qualcosa si stava muovendo. Alcune donne coraggiose testimoniavano la loro sofferenza ed il dolore della propria vita di anoressiche con libri dai titoli evocativi: "Tutto il pane del mondo", "Briciole", "Volevo essere una farfalla", "Donne invisibili", "VoraceMente"....

Soprattutto queste donne introducevano con forza, spesso con rabbia, la dimensione sottovalutata dall'approccio medico: le emozioni, violente, totalizzanti e mortifere che le attraversavano, anzi possedevano.

Conosco molto bene una di loro, Fabiola De Clercq, autrice del libro "Tutto il pane del mondo" pubblicato nel lontano 1993. Il suo libro ha avuto l'effetto di una bomba, migliaia di ragazze si sono rispecchiate nella sofferenza di cui testimonia Fabiola, che è stata subissata di messaggi e richieste di aiuto. Nella sua casa romana Fabiola ha iniziato dei piccoli gruppi di parola, in modo "familiare". Di li a poco si è trasferita a Milano e, per dare conto alle continue richieste di aiuto, ha costituito un primo nucleo di terapeuti (tra i quali io) per condurre i vari gruppi. Iniziava la grande "avventura" dell'ABA, Associazione per lo Studio di Anoressia, Bulimia e Obesità.

Per molti anni l'ABA era stata poco considerata dalle istituzioni e dagli ospedali nel panorama dei centri di cura per l'anoressia. Venivamo percepiti come qualcosa di artigianale, "alla buona" e senza fondamenti scientifici. Però noi incontravamo centinaia di ragazze sofferenti (a volte molto gravi) che partecipavano ai gruppi terapeutici e lottavano per uscire dal tunnel dell'anoressia. Non solo, tante ragazze erano già state in cura presso altri centri "specializzati" con scarsi risultati ed erano decise ad intraprendere la terapia in ABA. Il carattere artigianale, familiare con l'ascolto delle persone senza alcun giudizio o costrizione a mangiare dell'ABA, veniva percepito dai centri "specializzati" come una mancanza.

Invece proprio questo dispositivo psicologico di cura e la figura fondamentale di Fabiola, percepita come "una di loro" dalle ragazze, permetteva alle persone di essere viste, riconosciute ed accettate nel percorso di guarigione con i momenti positivi di consapevolezza ed eventuali momenti di regressione. La bontà dell'approccio terapeutico dell'ABA ha permesso di aprire centri in varie città italiane, per venire incontro alle domande di cura di giovani e meno giovani pazienti. Sin dall'inizio le varie équipe dei centri ABA si sono confrontate per costruire un sapere clinico condivisibile che ha prodotto convegni, seminari, una collana di testi specialistici ed un corso di formazione rivolto a medici e psicologi. Per molti anni l'amico e collega Massimo Recalcati è stato il direttore scientifico del'ABA.

Il dispositivo di cura dell'ABA ora veniva preso a modello da altri centri del territorio nazionale, in uno spirito di collaborazione e non antagonismo, con il vero nemico rappresentato dalla sofferenza anoressica che distruggeva la vita a così tante persone. 

Dopo tantissimi anni in ABA, con il trasferimento a Nizza, ho lasciato sullo sfondo la sofferenza anoressico-bulimica. Ma l'incontro (casuale ?!) con un biologo e Chef ed un esperto di marketing ha dato nuovo impulso al mio lavoro di studio e ricerca sull'anoressia.

A breve (so bene che l'ho già scritto) avrete informazioni dettagliate...


 

 






 


 















Il cibo, l'alimentazione ed il mangiare

© Le Alpi Apuane dal terrazzo, mia foto

Ho passato le vacanze in Toscana, a Marina di Massa, nella casa di famiglia che ha un grande terrazzo volto sulle Alpi Apuane. Il terrazzo è "il pezzo forte" della casa, lo abbiamo sfruttato per mangiare, rilassarci, giocare con la canna dell'acqua come i bambini, dormire (perchè no), e soprattutto... grigliare. Per chi ama l'inglese fare il BBQ.

Avevamo in programma, mio cognato ed io, di cambiare la vecchia griglia che ci aveva accompagnato per tanti anni (con soddisfazione) per un modello nuovo "più performante" sempre a carbonella.

© La nuova griglia con coperchio per potere affumicare, mia foto

Abbiamo scelto una griglia con coperchio per potere anche affumicare, esperienza del tutto nuova per noi. L'affumicatura ci ha aperto un mondo, a noi sconosciuto. Ci siamo lanciati su internet per visionare i tutorial su tale tipo di cottura, che conferisce alla carne (o al pesce) un sapore intenso e la rende tenera grazie al contatto prolungato con il calore moderato ed il fumo. In aggiunta alla carbonella si mettono pezzetti di legno di essenze che nel processo di affumicatura daranno l'aroma desiderato. Tale tipo di cottura prevede tempi lunghi, almeno due-tre ore per i vari tagli di carne.

Sarò sincero, il primo "tentativo" non è andato particolarmente bene a causa della nostra impazienza. Quando si accende la griglia occorre chiuderla con la carne dentro ed attendere almeno un paio di ore, senza mai aprire il coperchio, fiduciosi. Occorre solo tenere d'occhio il termometro che indica temperature di 80-90 gradi perchè il processo di affumicatura si realizzi.

Ebbene, noi abbiamo aperto spesso il coperchio preoccupati che qualcosa andasse storto, ingenuamente, ed allungando quindi i tempi di cottura. Nonostante ciò alla fine della cottura abbiamo potuto apprezzare ugualmente una carne buona e tenerissima.

Dopo il primo tentativo ci siamo lanciati nei giorni successivi: fiorentine, salsicce, pesce, gamberoni, verdure e patate davvero gustosi...

Queste note personali (mi scuserete) sono solo lo spunto per scrivere dell'argomento vero di questo post: Il cibo, l'alimentazione ed il mangiare. Metto assieme i tre termini che non sono propriamente sinonimi ma ci capiamo. Parto dal cibo, dagli ingredienti "base": vicino casa c'è una piccola macelleria con carne chianina, arista, salsicce, polli e conigli deliziosi. Colpiscono soprattutto il colore ed il sapore dei cibi: sapore intenso, deciso, netto ed appagante con colori che fanno venire l'acquolina in bocca !

Mi sono ritrovato un giorno a guardare la vetrina di questa macelleria, prima di entrare, ebbene sembravo uno dei cani di Pavlov che salivavano al solo sentire il rumore della ciotola con il cibo. Il profumo che usciva dalla macelleria era inebriante, attraente, quasi seduttivo! Il solo profumo, notate bene, quindi un'esperienza psicologica e sensoriale.

Andiamo avanti: un'altra bottega vicino casa è quella di Graziano, il nostro simpatico verduraio. La sua piccola bottega espone sulle mensole la verdura e la frutta con una cura particolare. Dei grandi cesti accolgono le varietà, con una festa di colori che attraggono lo sguardo ed anche li il profumo la fa da padrone. Per farmi assaggiare la frutta Graziano l'apriva e mi invitava a sentire il profumo, solo dopo a mangiarla. Ancora un'esperienza sensoriale e psicologica soprattutto.

Ultima tappa del nostro giro di spese la panetteria. Il profumo del pane è qualcosa di fantastico, quando lo si sente si ha la sensazione di casa, di piacere e di serenità. Le focacce unte di olio della nostra panettiera sono "pericolose", deliziose ed irresistibili. Mio cognato ed io le siamo certo simpatici dato che ci da solo le focacce uscite calde calde dal suo forno e, credetemi, il profumo è delizioso. Un'esperienza ancora sensoriale e psicologica.

Quindi il piacere, la sensorialità, i profumi ed i colori, come ho descritto, non sono esperienze della nostra pancia ma della nostra testa, una componente psicologica essenziale legata si al mangiare ma antecedente e preliminare al mettere qualcosa "sotto i denti".

Proprio l'aspetto sensoriale, cognitivo, psicologico del mangiare, non il riempire la pancia è l'oggetto di un lavoro di ricerca tramite un protocollo che stiamo mettendo a punto con la "complicità" di due preziosi amici.

Al momento non dirò altro, vi lascio a mezz'aria... A breve saprete meglio del progetto con tanto di sito, riferimenti, contatti e biografie dei partecipanti all'avventura. A presto.





 




 


 

 


 










 

 

 

17 agosto 2022 tromba d'aria

 


L’accento di Dalida o la traccia del paese perduto.

© Emanuela Surace

Condivido il testo della collega Emanuela Surace dell'APSI sulla parabola di Yolanda Gigliotti, conosciuta come Dalida

« Il resto resiste. Il suo niente occupa i luoghi vuoti della memoria o della speranza. Il resto ferisce. Nessun resto esiste senza lasciare una ferita, ed é cio’ che resta del resto. L’ombra della presenza e la chiarezza delle lacrime ».

(Jean-Luc Nancy. Que reste-t-il du reste ?)

« E’ molto giovane e bella, con quella bellezza latina e mediterranea che porta il sole in fondo agli occhi e sul viso, e il calore oscuro delle notti sui capelli »

(dalla pochette del primo album Elle s’appelle Dalida, 1957)

« T’amo come un paese » 

(Gesualdo Bufalino, La festa breve)      

Come raccontare Dalida ? Come definire l’idolo popolare, la diva mediterranea, la cantante Babel, l’icona bionda e melanconica, la tragedienne di mille canzoni d’amore ? Come interrogare la parabola di Yolanda Gigliotti – figlia di poveri emigrati calabresi in Egitto nata al Cairo – destinata a diventare la Callas della musica leggera, regina del varietà in cerca d’assoluto, star cosmopolita di strass e paillettes che canta passando da una lingua all’altra con una sola ed unica preghiera : morire sulla scena.

Affascinate Dalida, per sempre paradossale, figura della mitologia moderna, lettrice appassionata di Freud, paziente della psicoanalisi e come racconta la leggenda, con un esemplare di Malessere nella cultura sul comodino. 

Se anche noi psicoanalisti, come migliaia di fans nel mondo, cediamo al suo fascino, non é per l’arrogante quanto inutile ambizione di svelarne l’enigma ma perché l’arte e gli artisti da sempre ci ispirano e ci invitano à pensare, provocando in noi dello stupore, portando della luce sulla nostra clinica.    

La parte per il tutto.

Il tentativo sarà allora di pensare questo mito della canzone internazionale, attraverso un dettaglio che nel caso di Dalida é carico di conseguenze : il suo accento. 

Cosa sarebbe stata infatti Dalida e la sua storia nel panorama della canzone francese, senza la sua celebrata e rutilante R, cosi sonora e cosi italica ? Senza insomma questa sua dizione fétiche, indispensabile a tutte le sue imitazioni e fonte di puro godimento per chiunque voglia cantare con passione du Dalida ?

Pascal meditava sugli effetti del caso sul corso della Storia, evocando la lunghezza del naso della regina Cleopatra : la piccola causa capace di determinare la faccia del mondo. La mia proposta sarà allora d’interrogare l’enigma Dalida, partendo da questa piccola causa, il suo accento italiano, per nutrire la riflessione clinica. 

Si tratterà di delineare un ritratto attraverso la predilezione di un motivo unico, ancor piu potente se si considera il carattere cosmopolita dell’artista. 

Un piccolo niente dunque, come un’ombra, come un resto, come un soffio…come un accento.

Presenza latente e/o manifesta ? Ecco il movimento dell’accento : canta, risuona, da il ritmo e il tono come una musica nella musica della pronuncia che tradisce (o traduce) le origini e i luoghi della nostra storia. Un clandestino nella nostra conquista dell’altra lingua che ci segue come un’ombra, restando per sempre pura evocazione e traccia sonora del paese perduto. Un pegno della nostra lingua madre che ci ricorda che questa assenza non ha potuto risolversi – per sempre noi saremo stranieri nonostante la conoscenza delle lingue del mondo. 

« Strano fenomeno l’accento » ci ricorda Paul-Laurent Assoun, « questa patologia più o meno cronica, della proferazione si presenta anche come l’irruzione della natura « cantata » della lingua. Accentum non viene forse d’adcantum, letteralmente per il canto ? »

E Dalida, da dove viene ?

L’accento anche se nel continuum speculare della voce, é la traccia di una perdita, una deformazione nell’ordine della dizione, una dissidenza, la prova di una differenza irriducibile, per nulla una consolazione dell’identità, finalizzata a conservare la memoria del passato. Nessun patetismo nostalgico, niente di pittoresco, perché come lo testimonia la nostra clinica, il linguaggio é materia dell’affettivo e il rapporto alla lingua e ben troppo complesso, troppo intenso : « Una lingua inoltre non é altro che l’insieme degli equivoci che la sua storia vi ha lasciato persistere » afferma Jacques Lacan.  

Ed ecco che nel 1986 (Dalida si suiciderà nel 1987), per interpretare la protagonista de Le Sixieme jour de Youssef Chahine, la nostra diva deve quasi reimparare l’arabo parlato in Egitto. Strana dimenticanza, strana esitazione…Non era nata al Cairo, dove aveva vissuto con la sua famiglia italiana prima di lascire a vent’anni il suo paese per la Francia ? Se si puo’ perdere una nazione, lasciare per sempre una casa natale, come in seguito ritrovare il legame vivo ad una lingua non più parlata e pertanto originaria ?

Come tutto cio’ si trasforma ? Cosa significa questa prova nell’enunciazione, qui derivata dal confronto estremo con il personaggio drammatico di Saddika – povera e vecchia donna che si batte per salvare il piccolo nipote dal colera – cosi lontana dalla sontuosa regina dell’Olympia ?

Il film di Chahine resta il momento culminante del rapporto dell’artista con il mondo arabo e con la sua lingua. Un simbolo di questo legame originario e irrisolto con la sua identità orientale, tra prese di posizione politiche, strumentalizzazioni e ritorni laceranti. Il tutto coronato negli anni da un grande successo popolare che in questo caso si farà tuttavia attendere : Dalida tornerà in Egitto solamente nel 1977 con un ritardo significativo, forse come per un’inconfessabile resistenza nel lungo cammino che da Yolanda porta a Dalida.

Dal quartiere cosmopolita di Choubrah, piccola Alessandria, dove il suo orecchio è modellato dall’immersione nelle mille lingue degli immigrati che qui si confondono, alla conquista di un’altra lingua, il francese. Di questa lingua, Dalida s’impossesserà attraverso il suo celebre accento italiano costellato di sottili sonorità orientali. Sarà la sua italianità che le permetterà di affermarsi e di creare una sorta di lingua musicale (quasi un label): un dettaglio fondamentale che rafforzerà il carisma della nascente star esotica

Ai suoi esordi, Dalida è un tipico prodotto dell’industria discografica francese degli anni 50. Eddy Barcley, il suo produttore, si propone con un cerrto cinismo, di farne una arma capace di contrastare le cantanti realiste alla Edith Piaf e di opporsi al crescente successo delle starlette latine dell’epoca : «Cercavo (nel 1956) una nuova vedette con un accento, preferibilmente typée, per fare concorrenza a Gloria Lasso che faceva furore. L’esotismo funziona sempre. Gloria Lasso aveva un accento spagnolo, io volevo per farle concorrenza intelligentemente un accento italiano ».

Barcley rivela senza complessi una strategia alla quale la giovane Dalida risponderà perfettamente: l’esotismo –sebbene al prezzo di semplificazioni e stereotipi razialisti– è sempre efficace nella società dello spettacolo. Un’irresistibile machine à fantasmes per il pubblico del dopo-guerra sulla soglia del boom economico. A questo pubblico, la musicalità dell’accento italiano di Dalida –l’accent qui roule– sarà venduto come un prodotto made in Italy fra tanti, degno di erigersi allo statuto di mitologia moderna secondo la definizione barthesiana.

E poiché l’esotisme riflette più i gusti, i fantasmi e i valori dell’osservatore che del soggetto osservato, Dalida si farà conoscere in Francia con una canzone italiana Bambino e conquisterà il successo in Italia con una canzone francese Les gitans, a dimostrazione del relativismo dell’industria discografica, capace di appropriarsi di codici culturali adattabili secondo le latitudini. 

Figura dell’erranza.

Tuttavia l’esotismo, risorsa del marketing discografico, acceleratore e nello stesso tempo freno per la carriera di Dalida- si rivela nella nostra prospettiva un riferimento insufficiente. 

Dalida è l’emigratala stranieral’artista, tutte figure dell’erranza che ci spingono ad interrogare la nozione stessa di cosmopolitismo, tra processi di produzione dello star stystem e vicissitudini singolari. Una diva poliglotta che ha cantato in 15 lingue, impegnata in un corpo a corpo vitale con la sua lingua originaria, confusa dall’emigrazione, reinventata e ritrovata proprio attraverso la prova della differenza, nel confronto ad una Babele d’idiomi che le ha permesso di farsi un nome, di crearsi una lingua e di fare in modo del tutto soggettivo, l’esperienza della place de l’étranger.

Nella Francia degli anni 60 e ancor di più nel decennio successivo, Dalida incarnerà perfettamente il paradigma della star problematica descritta da Edgar Morin nel suo saggio Les Stars. Figura che segna il passaggio nella cultura di massa dall’euforia alla problematizzazione « Al mito della felicità succede il problema della felicità ». La parabola umana e artistica di Dalida descrive in modo potente questa trasformazione che, per Morin, ha inizio con la morte di due star hollywoodiane, James Dean (1955) e Marylin Monroe (1962). L’ombra della morte e ancor di più del suicidio, ricade sulla luce della star di questa metà del XX secolo, introducendo cosi il mal di vivere nell’immaginario festivo dell’industria dello spettacolo.

La notte del 27 febbraio del 1967 e il suicidio a Sanremo di Luigi Tenco, segnerà per sempre la vita e il repertorio di Dalida. 

Ma questa problematizzazione condurrà anche all’esaltazione del mito della cantante, che incarnerà per sempre il simbolo di un’erranza e di una ricerca reale. « La star» ci ricorda ancora Morin « é il frutto di un insieme di proiezioni e identificazioni di una particolare violenza». Cosi l’accento di Dalida questa frazione recondita, quest’agalma sonoracausa del desiderio del suo pubblico, feticizzato e super-personificato, pur nello splendore e nella celebrazione del sogno mediterraneo si tinge del colore della melanconia e della perdita. Testimonianza della presenza del reale in seno all’ideale. Motivo di un effetto potenzializzato, di un transfert massivo che qui, attraverso questa musicalità segreta, prende il tono di un’incursione della natura « cantata » della lingua.

La nozione di musicalità che sostiene la mia riflessione, s’ispira alla teorizzazione del teatro della Phoné di Carmelo Bene. Derivata dal teatro greco -dove tutto é musica– la musicalità rappresenta per il grande attore italiano, uno slittamento, le depassement che forza l’inerzia dell’ascolto. Come per il celebre strabismo di Dalida, divario del punto di fuga dello sguardo, particolare perturbante, scandalo estetico nel cuore della visione e dell’immagine, cosi nella non fissità della lingua, l’accento può dunque considerarsi, come uno sgambetto nel parlêtre, come questa musicalità che per una forma di teatralità, destabilizza l’ascolto e intensifica il senso. 

E visto che la psicologia delle stars esige un’incursione nella psicologia del doppio, questo resto che é l’accento realizza come una riunificazione tra Yolanda e Dalida, tra la luce della scena e l’ombra del paese perduto che segretamente attraverso la voce e l’arte della diva, evoca per noi tutti l’ailleurs che ci abita, i nostri luoghi assenti, i nostri fantasmi.
 
di Emanuela Surace

Il bilinguismo: riflessioni sulla clinica del soggetto bilingue

 

© APSI

Condivido il testo del collega dell'APSI Marco Androsiglio

L’importanza del bilinguismo nel lavoro clinico risulta sostanziale per due motivi:

1/ é per mezzo della lingua che il paziente formula la propria domanda;

2/ per lo stesso mezzo il clinico procede nella cura.

Lacan lo enuncia chiaramente: “La psicoanalisi non ha che un medium: la parola del paziente” e “l’analisi riesce a disfare con la parola ciò che è fatto di parola”.

La nuova forma che egli [Freud] vi sostituisce tramite l’interpretazione è dell’ordine della traduzione, e ognuno sa che che cos’è la traduzione. […] Si tratta sempre di una riduzione e c’è sempre una perdita nella traduzione. Quello di cui si tratta è, in effetti, il fatto che si perda. Si coglie, insomma, che questa perdita è il reale stesso dell’inconscio, anzi il reale tout court. 

Un esempio: un paziente inglese, durante una seduta esclama “Il rains cats and dogs” constatando il temporale che imperversa fuori dallo studio del suo analista.

Dopo un istante di pausa, continua ridendo: “Anche il cielo ce l’ha con me !”, facendo riferimento al lungo lavoro che aveva svolto attorno alla sua tenace fobia dei cani.

In questa vignetta, che si svolge dunque in inglese, quale delle sue frasi si associa all’altra? La prima frase, chiamiamola F1, produce come conseguenza dell’associazione, F2? 

Se si, potremmo dedurne che la lingua inglese, la sola che contiene a mia conoscenza una tale espressione figurata, ha permesso al soggetto di ritornare sulla fobia, argomento per cui, dunque, il paziente intendeva continuare a lavorare.

Questa prima ipotesi potrebbe iscriversi nell’elaborazione, conosciuta sotto il nome degli autori che l’hanno concepita, Sapir-Whorf, per cui, in breve, la lingua nella quale il soggetto si esprime determina il pensiero medesimo.

Una seconda ipotesi, invece, suppone che la decisione del soggetto fosse di proseguire l’elaborazione attorno alla costruzione fobica e che, retrospettivamente, come nell’elaborazione del processo primario del sogno, un elemento di stimolazione esterno (il temporale), si integri nel processo psichico proferendo dunque F1 per articolarsi con F2.

In sintesi l’ordine è da invertire con F2 che precede logicamente F1 malgrado la successione cronologica inversa.

Accadrebbe la stessa cosa nel caso di una psicoanalisi in un soggetto bilingue?

Un paziente che si trova a interrogare il proprio desiderio di essere padre nella coppia porta un sogno in analisi. 

Il paziente e l’analista non sono francofoni ma l’analisi si svolge in francese 

“Mi trovo a entrare all’interno di una enorme statua della Vergine Maria, che si può visitare. Salgo lungamente sulle scale ed arrivo sino alla testa”” (il sogno è raccontato in francese).

  • “La tête du mari…”. (interviene l’analista)

facendo così risuonare l’equivoco tra Maria (Marie)  et marito (mari)

Ecco un esempio in cui ci si può interrogare sulla correlazione che intercorre tra due lingue: il paziente in quale lingua ha sognato? L’esporlo in francese che conseguenze ha avuto? L’interpretazione può inserirsi nell’allineato della catena inconscia? 

La lingua al di là della comunicazione

Poco fa abbiamo evocato la teoria di Sapir-Whorf che ha come esito l’incommensurabilità di due lingue: se ogni lingua forma e determina il pensiero, non esiste modo di poter passare da un sistema linguistico a un altro.

Ora, in tutta evidenza, verifichiamo quotidianamente che non è questo il caso.

I due esempi riportati, ci permettono però di avanzare in una direzione che si allontana da quello della linguistica per recarci nel campo più proprio della clinica.

Sebbene il contenuto linguistico veicolato dai pazienti porti dei chiarimenti sulla biografia e sugli avvenimenti della vita, non è solo per questa via che il lavoro clinico si svolge.

Se si rimanesse esclusivamente su questo piano, saremmo portati a intendere il percorso terapeutico alla stregua di una dialettica interpersonale di cui la cifra sarebbe al meglio il buon senso, al peggio la suggestione.

In un primo tempo, orientato dall’ipotesi hegeliana e la teoria di Ferdinand de Saussure, Jacques Lacan aprì per primo la strada in cui le tracce del desiderio del soggetto erano rintracciabili attraverso una teoria del riconoscimento.

Già così, in nuce era possibile scorgere quella che fu la portata rivoluzionaria dell’elaborazione lacaniana e che può portare una qualche luce nel tema che affrontiamo oggi: quella del bilinguismo.

Se la parola è fondamentalmente portatrice di senso come effetto in sovrappiù, la faccia nascosta della lingua è quella che si pone al di là del senso e della significazione e che si muove su un terreno in cui la componente “trasmissione dell’informazione” è secondaria.  

Una citazione:

Il poeta rifiuta la strumentalizzazione delle parole, sarebbe un sacrilegio, perché ogni letteratura concepita come corona di trasmissione, come pura nominazione, si renderebbe profana, rivelerebbe essa stessa il suo carattere non essenziale, accessorio di fronte alle cose designate dalle parole. Il poeta porta alla lingua una venerazione che gli conferisce un primato sul reale. [La poesia] è il segno denudato che, nella sua fragilità, spoglia il significante del lavoro funzionale del significato, per incendiarsi in un orizzonte di libertà in cui la sonorità stessa è evocazione.

Trovo che la citazione ci trasmetta meglio di qualsiasi altro tecnicismo la portata assoluta del lavoro clinico: la fortuna per un soggetto bilingue si trova precisamente laddove l’estraneità dell’ “altra” lingua gli permette di cogliere appieno il fondamentale esoterismo di ogni lingua, compresa quella materna.

Il soggetto è gettato nell’esistenza nelle coordinate linguistiche, simboliche e sociali che lo precedono. E’ necessario, per l’iscrizione nel legame sociale, accettare di parlare la lingua che ci accoglie. 

Nella lallazione o nelle fasi pre-linguistiche, il bambino accede al linguaggio attraverso l’atto del genitore o di chi ne svolge le funzioni, che scommette su di lui e che dietro ai gridi o alle ecolalie, ci sia un soggetto che vuole farsi intendere. 

Ebbene, il soggetto bilingue avverte in maniera potente e patente questo iato: la lingua è sempre la lingua dell’Altro. Nello specifico per un parlante italiano, il francese.

In questa transizione tra la lingua italiana a quella francese e viceversa, la negoziazione come principio della traduzione implica un’interpretazione, una scelta che pone il soggetto in difficoltà, raddoppiando il già difficile compito di collegare le parole e le cose, per dirla alla Foucault.

Nel lavoro clinico il compito che attende il soggetto è proprio quello di nominare, a partire da una sofferenza – che è sempre la porta d’ingresso di una terapia- quello che non funziona, quello che non va più.

Questa nominazione quando si precipita, quando è troppo rapida non flette abbastanza la lingua per far cogliere ciò che si cela al di là del senso corrente, al di là della significazione data quotidianamente alla comunicazione.

L’andirivieni tra una lingua e l’altra

Un’altra questione può essere posta: quotidianamente nel lavoro clinico, pazienti italiani bilingue, oscillano tra le due lingue, fanno uso di un’espressione francese parlando in italiano, l’italiano fa la sua apparizione in un lavoro clinico in francese.

Come leggere questi scivolamenti? Sono all’opera meccanismi difensivi? O invece sono deviazioni che rispondono alla regola fondamentale?

È mia opinione che in questi shifting, è da cogliere l’aspetto che più conta, quello del desiderio del soggetto al di là della domanda di voler essere compreso.

Riprendiamo la questione a partire di nuovo dal lavoro di traduzione: come aveva già suggerito Humboldt – tradurre significa non soltanto portare il lettore a capire la lingua e la cultura di origine, ma anche arricchire la propria. Per esempio la traduzione del Finnegans Wake di Joyce porta la lingua di destinazione, l’italiano, a esprimere ciò che essa prima non sapeva fare (così come Joyce aveva fatto con l’inglese) e le fa compiere un passo in avanti. 

Se supponiamo dunque che la stoffa del desiderio del soggetto sia della stessa sostanza del testo poetico, allora come nella traduzione poetica, si lavora in una sorta di riscrittura del desiderio che non soltanto tenta di farsi strada tra le parole di una lingua ma che nel suo dirsi si modifica nel suo atto di enunciazione.

L’orizzonte possiamo dirlo, sarebbe di de-maternizzare la lingua.

Di Marco Androsiglio APSI.


Quando il bambino si confronta a più lingue

   

© APSI

Condivido il testo della collega Ombretta Graciotti presentato al Convegno "Storie di bilinguismo" del 15 aprile, organizzato dall'APSI a Parigi

di OMBRETTA GRACIOTTI

Il bilinguismo è un tema di studio e di lavoro estremamente ricco e in continuo divenire, esso è fonte di approfondimento di discipline diverse, l’antropologia, la sociologia, le scienze del linguaggio, la psicologia e le neuroscienze più recentemente. In generale il bilinguismo è spesso associato all’acquisizione e allo sviluppo del linguaggio nel bambino e i ricercatori delle varie discipline tentano con differenti modelli teorici di comprenderne il meccanismo di acquisizione e di sviluppo. 

Nel tempo e nelle epoche il bilinguismo ha avuto più o meno successo; per esempio mi è capitato più volte, qui a Parigi di discutere con francesi d’origine italiana parlare della loro esperienza con la “lingua madre italiana” dei loro genitori. I genitori arrrivati in Francia nel periodo tra le due guerre nel 20esimo secolo, raramente trasmettevano la loro lingua d’origine ai figli, la parola d’ordine, era l’integrazione e l’assimilazione nel paese di accoglienza. Questi figli dicono di aver vissuto uno strappo, un taglio rispetto alle  loro origini. Oggi, alcuni di loro, imparano l’italiano per conoscere meglio le loro origini. La lingua in questo senso è considerata come idiomatica ma anche come rapprensentante di un’identità e di una cultura straniera.        

Oggigiorno, le cose sono molto diverse, in un mondo globalizzato e ricco di scambi, il bilinguismo è considerato come una ricchezza, confrontare il bambino alla differenza attraverso l’acquisizione e la promozione della lingua d’origine dei genitori, concomitante alla lingua del paese di accoglienza è accettato, promosso e sostenuto; basti pensare alla diffusione delle scuole paritarie, ma non solo, in Francia da una decina di anni, nelle scuole elementari in regioni come la Bretagna, la Corsica o in Occitania, delle lezioni sono impartite nelle lingue regionali che vengono riconsiderate come lingue paritarie al francese e permettono alle giovani generazioni di ritrovare una forma di identità e di cultura del territorio che abitano.  

In Italia,  anche chiamato il paese dei “mille campanili”, il rapporto tra l’italiano e le lingue dialettali è molto più flessibile e spontaneo. I tanti accenti, permettono ad ognuno di noi, d’individuare più o meno,  e non solo, l’origine geografica del nostro interlocutore. 

Ma che cos’è il linguaggio e il bilinguismo? Certo uno strumento di comunicazione con gli altri, ma non solo, esso è anche altro. Recentemente, una giovane italiana che lavora a Parigi da qualche anno, mi diceva che aveva cercato attivamente di crare un gruppo di amici italiani per uscire con loro nel week-end, in particolare essa mi diceva che “aveva bisogno di parlare in italiano”. 

Che cos’è questo bisogno di parlare italiano, a che cosa puo’essere legato? Certo per ogni persona ci sarà una risposta diversa.

Nella mia esperienza clinica con i bambini molto piccoli, mi è capitato più volte di essere confrontata a sintomi legati al linguaggio, alla parola e più in particolare nelle situazioni di bilinguismo.

Prima di entrare nel dettaglio di alcune sequenze cliniche, vorrei introdurre qualche elemento più generale del rapporto del bambino al linguaggio e alla parola, questi elementi prescindono dall’idioma nel quale il bambino è immerso. 

Al momento della nascita il bambino non parla, eppure egli è immerso in un “bain de langage” incarnato dai genitori e dall’ambiente circostante. Questo discorso intorno al bambino, sul bambino e rivolto al bambino formerà la struttura del lingaggio, nel quale egli evolve,  possiamo dire che il bambino “è parlato”, “ prima che parli”. Nel lavoro con i bambini è molto importante di riconoscere la sospensione, l’oscillazione tra l’essere parlato e cioè il discorso dell’altro e il bambino parlante, che è sempre in divenire.  

Il bambino piccolo si trova sempre tra questa oscillazione  tra l’essere parlato dagli altri e diventare un soggetto che parla. I bimbi piccoli parlano con il loro corpo per sopperire alla difficoltà di prendere la parola, si dice che il bambino è prematuro, nella sua capacità di dire i suoi bisogni, è attraverso il grido e il pianto che invoca il genitore, il quale traduce e trasforma in domanda, il bisogno del bambino. Allora il genitore risponde, nutrendolo, ma non solo, egli dà anche amore e parola, perchè si rivolge a lui nel momento della cura. E’ cosi che iniziano gli scambi tra i neonati e i genitori, una volta che la fame è soddisfatta, la suzione, le carezze e le parole materne/paterne si fondono nelle prime esperienze di piacere dalle quali emergeranno i primi vocalizi, i primi balbettii della parola che lascerà delle traccie nella lingua parlata dal soggetto. 

I genitori comunicano con i bimbi piccoli attraverso la parola, ma anche con la mimica, con i gesti, con le inflessioni della voce e i bimbi rispondono a queste sollecitazioni. Ogni madre inventa la sua propria “lingua dei segni” con il suo bambino e vocalizza la sua parola, è qui che il bambino tesse il suo piacere per la comunicazione e l’amore della lingua. Comprendere i bisogni dei bambini è certo importante, ma ad esso si associa la domanda d’amore e il desiderio, questi tre aspetti fondano la relazione tra i bambini e i loro genitori, ma non solo, esso fonda anche il rapporto tra il soggetto e la lingua materna, questo rapporto non va senza i malintesi e i fallimenti che sugellano il legame unico che ciascuno intrattiene con la lingua materna. In questo senso, il bambino non apprende semplicemente una lingua, ma ne crea una all’interno di un’altra. Gilles Deleuze diceva che i poeti avevano questa capacità stilistica del bilinguismo, inteso come uno stile: “Uno stile, è riuscire a balbettare nella propria lingua (…) noi dobbiamo essere bilingui anche in una sola lingua, dobbiamo avere una lingua minore anche all’interno della nostra stessa lingua”.  

Lavoro in un centro che accoglie delle famiglie con bambini fino a 5 anni, quasi tutti i membri dell’équipe sono bilingue (5/6 lingue sono rappresentate), molte famiglie d’origine straniera si rivolgono al nostro centro e soprattutto quando il bilinguismo è occasione di difficoltà, ecco l’esempio di Anna che ha 4 anni la cui famiglia è di origine italiana. La madre si rivolge a noi perchè la figlia non parla il francese ed a scuola iniziano i problemi, lei vuole che sua figlia parli con un collega francese, senza accento, in maniera che questi le insegni la lingua del paese di accoglienza. La madre dice che Anna parla molto bene l’italiano, meglio della maggior parte dei bambini della sua età. Per la madre è importantissimo che sua figlia non perda l’italiano, è per questa ragione che lei non desidera che “il francese entri in casa “. 

Nei primi tempi Anna non parla e resta isolata, poi un giorno scoppia a ridere quando un collega imita con un suono vocale uno scontro tra due macchinette “Bing Bang”, è in questo modo che Anna entra in relazione con lui, si anima nei giochi, ma senza parlare mai, senno’ qualche parola in italiano.   

Un giorno, giocando con un separé a finestre multicolore il collega le dice “Oh, tu es jaune! Tu es bleu! etc.”, Anna allora dice “giallo, blu, verde”. Il mio collega francese tenta di ripetere le parole con il suo accento francese, soprattutto per la parola “ jalo’”, che la sorprende e la fa ridere tantissimo. Con il tempo, Anna insegna al mio collega delle parole in italiano, con un piacere condiviso e di seguito, lei si aprirà al francese e potrà iniziare a conversare anche con gli altri colleghi del centro. 

Vediamo come in questa situazione, è stato possibile l’incontro con altro, con uno stile, un balbettio nella lingua che ha permesso ad Anna di superare la barriera della lingua materna, ed al di là dell’acquisizione delle competenze linguistiche del francese, di fare incontro con l’estraneo che si trova nel linguaggio. 

Ombretta Graciotti


Bilinguismo: una risorsa o un ostacolo?

© APSI

Condivido uno scritto della collega Cinzia Crosali dell'APSI, sempre sul tema del bilinguismo.

Bilinguismo: una risorsa o un ostacolo?

Tra i consueti timori di inizio d’anno scolastico dei connazionali che vivono in Francia, o comunque all’estero, c’è un interrogativo frequente: “parlare due lingue, è un vantaggio o uno svantaggio nel processo dell’apprendimento?”

Sono soprattutto i genitori dei bambini più piccoli a porsi questo interrogativo.  Esporre un bambino piccolo a più idiomi che conseguenze può avere? Il bilinguismo è una ricchezza o un inciampo nello sviluppo del linguaggio e quindi per l’evoluzione cognitiva?

Prima di tutto: che cos’è il bilinguismo?  E’ considerato bilingue colui che padroneggia due o più lingue con le stesse competenze e capacità di una persona madrelingua. È questa la caratteristica di bambini cresciuti in ambienti in cui l’uso di più lingue è simultaneo.  

Bilingui sono quindi gli individui che hanno due sistemi linguistici paralleli e indipendenti e che non hanno bisogno di tradurre da una lingua all’altra.

Il linguista Renzo Titone definisce il bilinguismo come “la capacità di un individuo di esprimersi in una seconda lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a tale lingua sono propri, anziché parafrasare la lingua nativa”(1). La sua analisi del fenomeno lo porta a distinguere fra : bilinguismo bilanciato e no, bilinguismo primario e secondario, precoce o tardivo, ecc. (2)

Molteplici sono le distinzioni perché il bilinguismo è un fenomeno complesso e multifattoriale in cui entrano in gioco variabili diverse: l’età di acquisizione, le interferenze, le dominanti, i registri linguistici, i contesti, gli aspetti cognitivi, culturali, familiari, i fattori emotivi e psico-affettivi.

La domanda che genitori e insegnanti si pongono riguarda i rapporti del bilinguismo con lo sviluppo e con l’apprendimento. Si chiedono se l’interferenza di una seconda lingua ostacoli i processi cognitivi. La nostra risposta è “no, anzi!”. Le ricerche tendono a confutare questa ipotesi di interferenza negativa.  

Nei soggetti bilingui e multilingui si sono riscontrati risultati superiori a livello cognitivo e mnestico (3).  Per esempio nelle prove piagetiane della ricostruzione percettiva, nella individuazione di correlazioni simboliche, nella risoluzione di problemi logici, i soggetti bilingui produrrebbero migliori prestazioni.  

Essi avrebbero, a loro vantaggio, una maggiore plasticità del pensiero e quindi una maggiore flessibilità delle funzioni cognitive. Questo sembrerebbe sfatare il pregiudizio inerente a interferenze  prodotte dall’introduzione di una seconda lingua nella prima infanzia.

Naturalmente tutto questo è vero in caso di bambini che non presentino ritardi dello sviluppo psicofisico, o problematiche affettive tali da ostacolare la crescita e la relazione con il mondo esterno, indipendentemente dal bilinguismo.

Noi riteniamo che, esclusi i casi sopra citati, i bambini bilingui capendo rapidamente che esistono più suoni, più parole per indicare una cosa, imparano fin da piccoli ad avere una visione pluridimensionale della realtà, e ad acquisire un relativismo nominale e quindi una maggiore disponibilità al nuovo, alla diversità e alla relatività in generale.

Passare da una lingua all’altra è una ginnastica automatica che bambini molto piccoli sanno fare con sorprendente abilità, infatti essi si rivolgono in modo spontaneo ad adulti di diverso idioma, usando la lingua appropriata, quella con cui l’adulto parla loro.

Così se i genitori sono di madrelingua differente, il bambino userà spontaneamente le due lingue in modo alternato e pertinente.  La lingua infatti non viene dal bambino, ma dall’adulto. Il bambino la restituisce. Jacques Lacan diceva che il linguaggio ci precede, nel senso che noi nasciamo in un bagno di linguaggio che esiste prima di noi.

Una madre italiana mi ha raccontato che il suo bambino di tre anni, dopo aver parlato al telefono in francese al padre, ritornando spontaneamente a parlare in italiano alla madre che lo teneva in braccio, esclamò: “che bello, una lingua viene su e un’altra va giù!”, toccandosi la sua lingua in bocca.  

Non poteva esprimere meglio la teoria lacaniana: più che parlare, il soggetto “è parlato” da una lingua.  È come se il bambino non decidesse, ma si trovasse a parlare con la lingua dell’altro, e ne fosse lui stesso piacevolmente sorpreso.

Inoltre l’apprendimento secondario di una lingua straniera non sembra essere correlato all’intelligenza. Persone con alto livello intellettivo possono avere difficoltà e resistenze ad imparare le lingue straniere. I fattori ostacolanti non sono quelli intellettivi, si tratta piuttosto di fattori ansiogeni, affettivi, di inibizione, di identificazioni valorizzanti o svalorizzanti, ecc…  Una parola nuova implica un riassetto globale delle reti associative e dell’investimento affettivo.

Ricordiamo che Levi-Strauss, diceva che non pensiamo alla stessa cosa quando usiamo, in due lingue diverse, due parole che vogliono tuttavia dire la stessa cosa. Per esempio scriveva:  

“Per me che ho parlato esclusivamente inglese per certi periodi della mia vita, pur senza essere bilingue, fromage e cheese vogliono certo dire la stessa cosa, ma con sfumature differenti. Fromage evoca una certa pesantezza, una materia untuosa e poco friabile, un sapore denso.

È una parola particolarmente adatta a designare quel che i lattai chiamano ‘paste grasse’; mentre cheese, più leggero, fresco, un po’ aspro e che svanisce sotto i denti (si pensi alla forma dell’orifizio boccale nella pronuncia della parola), mi fa immediatamente pensare al formaggio bianco. Per me il ‘formaggio archetipo’ non è dunque, a seconda che io lo pensi in francese o in inglese, il medesimo” (4) (Lévi-Strauss 1958:110).

La traduzione non è fatta di rapporti biunivoci regolati una volta per tutte dal dizionario bilingue, ma comporta una complessità di variabili percettive, mnestiche, sensoriali e affettive che sono diverse da individuo a individuo.  

Anche l’esperienza di vita di chi impara una seconda lingua ha un ruolo essenziale: non è la stessa cosa l’apprendimento del francese per i nostri ragazzi italiani trasferiti con la famiglia a Parigi, rispetto alle condizioni di apprendimento delle nuove lingue da parte dei migranti profughi nordafricani o mediorientali, che arrivano in continuazione in Europa.

Le parole trasmettono sapori, sensazioni, emozioni, ricordi, ma non dimentichiamo che sono fatte di sonorità. Hanno una risonanza, sono fatte di suoni, le parole hanno una forma acustica, sono fonemi che scivolano da una lingua all’altra tendendo trabocchetti di significati e sovrapposizioni.

Mi riferisco al problema delle interferenze che avvengono tra lingue che si assomigliano come l’italiano e il francese. Gli insegnanti di lingua straniera conoscono l’incidenza dei cosiddetti “falsi amici” nell’apprendimento delle lingue.

Tra il francese e l’italiano essi sono numerosi e creano spesso equivoci e malintesi, o anche situazioni imbarazzanti, come quella che accadde a un ragazzo italiano, che corteggiando una ragazza, le disse: “ta peau est si morbide !”(5), e rimase stupito della smorfia di disappunto della fanciulla.

Parole francesi come morbide, caleçon, cantine, costume, ferme, salir, gâteau…  e tante altre, se usate maldestramente, possono creare situazioni comunicative fastidiose o divertenti a seconda del contesto.

La psicoanalisi, in quanto pratica centrata sul linguaggio, si è naturalmente interessata al bilinguismo. Anzi si può dire che l’invenzione di Freud è proprio basata sull’analisi di una “lingua straniera”: la lingua dell’inconscio. Una lingua che occorre decifrare e tradurre ogni volta che si presenta nelle sue produzioni bizzarre: i lapsus, gli atti mancati, i sintomi, i sogni…

E’ interessante chiedersi perché per alcune persone imparare una lingua straniera è relativamente facile e per altre quasi impossibile. Che cosa significa “essere o non essere portati per lingue”. Si tratta di una disposizione innata o dipende dal contesto di crescita?  

Noi pensiamo che imparare una lingua straniera significhi accettare di cedere, di perdere qualcosa. L’adulto che impara una lingua straniera ha la sensazione di regredire a una condizione infantile, una sensazione che può produrre insicurezza e resistenza.

Opporsi alla lingua straniera diventerebbe un modo di difendere la propria identità profonda, come se questa fosse esprimibile soltanto attraverso la lingua madre. Infine i processi di individuazione e separazione che avvengono nel rapporto tra il bambino e la figura materna, non sono estranei al rapporto del bambino con il linguaggio in generale, e con l’apprendimento delle lingue straniere in particolare.

Imparare a parlare significa far passare le soddisfazioni pulsionali sotto le forche caudine del linguaggio. Non si è più nutriti, scaldati, curati, automaticamente, ma bisogna chiedere, domandare, parlare.  La frustrazione e la fatica che ciascuno ha dovuto attraversare per imparare a parlare è rinnovata nell’apprendimento della seconda lingua.  

Qualche volta invece, la seconda lingua diventa un salvagente, una risorsa che permette di fuggire da un nucleo ansiogeno troppo forte, contenuto nell’uso della lingua madre.

Nel mondo delle lingue comunque il fattore affettivo è sempre presente, perché parlare significa essere in relazione, confrontarsi con l’altro. Il fattore affettivo è quindi il cardine dell’identificazione, della fiducia in sé stessi, del coraggio di correre rischi in ogni forma relazionale, il fattore affettivo in definitiva è ciò che permette, come diceva quel bambino di tre anni, che, “una lingua vada giù e che un’altra venga su”, in modo spontaneo e disinibito.

Di Cinzia Crosali


Equilibrismi tra le lingue

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Condivido lo scritto della collega Cinzia Crosali dell'APSI sul tema del bilinguismo.


Per noi italiani che viviamo in Francia, l’equilibrismo tra le due lingue è quotidiano. Anche se la conoscenza del francese è perfetta, accade sempre che una parola, un’espressione, un modo di dire italiano si imponga nella frase e ci risulti intraducibile.  

A volte invece è un’immagine linguistica francese che non trova un suo corrispondente nella lingua italiana. 

Cerchiamo allora il corrispettivo meno lontano, quello che si adatta di più, ma restiamo scontenti, qualcosa non ci soddisfa, ci lascia con un senso d’incompletezza e di frustrazione. Non è propriamente il significato a deludere, quanto la tonalità, il colore, la materialità stessa della scelta linguistica.

Ne sanno qualcosa i traduttori, che, quando fanno in modo appassionato il loro lavoro, vivono momenti di profonda indecisione, sempre sul bordo di un tradimento nei confronti della lingua da tradurre.

L’analogia che avvicina l’atto del “tradurre” con quello del “tradire” è largamente conosciuta. Qualcosa di passionale e intimo è, infatti, all’opera.

Un’amica traduttrice che lavora con un gruppo di colleghi professionisti, mi raccontava recentemente quanto siano accese le discussioni tra i traduttori del suo gruppo di lavoro.

Quando non si trova l’accordo su una scelta linguistica facilmente si arriva a litigare anche in modo aspro.  Nessuno vuole cedere o fare concessioni all’altro; a volte le dispute sulla scelta delle parole, sulla sintassi e sullo stile diventano così violente da rendere impossibile la continuazione del lavoro.   

Pare proprio che qualcosa di molto intimo e prezioso sia messo in gioco.  Di che cosa si tratta? A che cosa non si vuole rinunciare? Quale punto insopportabile viene toccato?  

Lo psicanalista Jaques Lacan aveva chiamato questo qualcosa di intimo e prezioso: “la  lalangue” e diceva che essa non ha niente a che vedere con il dizionario. Essa è più vicina al balbettio iniziale del soggetto parlante, alla lallazione del lattante, alla primordiale forma ed emozione che la lingua madre ha assunto per ciascuno di noi quando siamo entrati nel linguaggio, all’inizio della nostra vita.  

Se la traduzione è così difficile e dolorosa è perché ogni parola deve essere estirpata dalla “lalangue” della prima lingua per trovare un corrispondente nella seconda lingua della traduzione.  

Una parola della lingua materna deve essere lasciata andare, lasciata cadere, deve essere strappata alla sua familiarità, al fascino e al senso di completezza che dà questa familiarità.  Una separazione da un’intimità è allora in atto.

E’ questa l’operazione difficile della traduzione, si tratta di un’operazione in cui devo rinunciare all’intimità rassicurante di una parola della mia lingua, devo separarmi da essa, e questo quando la parola corrispondente della seconda lingua non è ancora a mia disposizione: tante parole si affacciano e mi si propongono, ma nessuna per un breve momento è utilizzabile.

Si tratta di un istante di vacillamento, di un impercettibile momento di assenza di “bordo”. Ci si stacca da una riva, ma l’altra riva non è ancora a portata di mano.

C’è dunque un istante vuoto, che implica una separazione, un taglio, una vertigine. Poi la parola della seconda lingua prende forma, s’impone, s’iscrive: l’altra riva è toccata. Ho cercato di descrivere al rallentatore un processo mentale che avviene in modo automatico, quasi inconsciamente, ma che non è indolore.

Chiunque abbia cercato di tradurre una poesia, o una canzone sa quanto grande sia l’impotenza frustrante, di rendere con fedeltà la materialità e la sonorità di un verso o di un’immagine poetica.   

Quando poi riusciamo ad approdare ad una traduzione che ci piace c’è una vera giubilazione, non si tratta di una semplice traslazione da dizionario, ma di un vero atto di creazione con tutto il piacere che ogni creazione comporta.

Nelle sedute psicanalitiche con persone italiane che vivono in Francia le due lingue spesso si sovrappongono, alcune parole si contaminano, altre fanno “a pugni” per imporsi.  

La fatica di imparare il francese al momento della migrazione o del trasferimento, è ricordata da tutti come un’intima sofferenza.

Un paziente venuto in Francia all’età di 30 anni, negli anni cinquanta, mi raccontava come gli fosse penoso allora non accedere al motto di spirito nella nuova lingua.

Al suo paese, in Italia, era considerato un brillante umorista; animatore di serate e convivi, sapeva raccontare barzellette e storielle con estrosità e brio. Arrivato in Francia tutti i suoi tentativi di tradurre in francese il suo repertorio di battute umoristiche fallivano miseramente e la sua stessa posizione e identità nel gruppo dei pari ne risultavano compromesse e frustrate.

Il motto di spirito, infatti, è talmente cementato alla materia linguistica da cui è costruito, da opporsi ad ogni tentativo di traduzione, salvo a cadere nel ridicolo.

 Un altro elemento che resiste alla traduzione automatica è l’atto del contare: anche dopo molti anni di vita in Francia, continuiamo quasi tutti a contare mentalmente in italiano, ritrovando nel numero e nella quantità il nocciolo duro e indistruttibile della forza della lingua madre.   

Alcuni miei pazienti che parlano preferibilmente in francese, ricorrono istintivamente all’italiano per rievocare un ricordo d’infanzia, una scena familiare o un sogno remoto.

E’ soprattutto nei sogni che si formano i neologismi più interessanti; il lavoro della “condensazione” e dello “spostamento” non vale solo per le immagini oniriche ma si gioca, attraverso formidabili creazioni, anche sulla lingua, creando sorprese e giochi di parole rivelatori delle verità intime del soggetto. 

Siamo noi i creatori dei nostri sogni, essi dovrebbero almeno insegnarci a recuperare le capacità inventive che, quando l’inibizione è addormentata, ci permettiamo.  

Questa libertà ci servirebbe forse a trovarci un po’ più a nostro agio non solo nella lingua straniera, ma nella lingua tout court, nell’atto di parola, che, per ogni soggetto, in qualsiasi lingua si produca, è sempre un momento straordinario di rischio e di emozione. 

 

Cinzia Crosali

Tra italiano e francese: una lingua dell'amore

© APSI
Condivido il testo della collega dell'APSI, Eleonora Renna, sul tema della lingua materna e della lingua francese. Buona lettura.
 
Senti che musica ci canta Gino Paoli: “Sapore di sale, sapore di mare. Che hai sulla pelle, che hai sulle labbra…” C’è nella lingua materna questa sensazione dell’amore in bocca, cioè un sapore di qualcosa di perso che è ritrovato.

Ognuno ha nelle orecchie il sapore dell’amore di quelle parole sentite da bambini e che ci colpisce ancora oggi nel punto più profondo del nostro essere. La lingua materna ha questa funzione di emozionarsi ogni volta, sempre più.

Per ogni italiano in Francia, l’incontro con quest’altra lingua, il francese, costringe allora a separarsi della sua lingua materna e del suo sapore che manca. Ma come ritrovare questa sensazione dell’amore con questa lingua straniera?

Quando si vive in Italia, si parla insieme con lo stesso linguaggio ch’è l’italiano.

Al di là del comunicare, ciascuno trova nel linguaggio che condividiamo tutti, le parole dove ci mettiamo le nostre rappresentazioni e identificazioni simboliche come soggetto dell’Altro della stessa cultura: ognuno si racconta la sua storia con l’italiano che serve finalmente da linguaggio per pronunciarsi.

Basta parlare per dire quello che siamo con le stesse parole che non mancano, così nella stessa lingua che si parla crediamo di capirci tutti.

La lingua straniera come lingua dell’Altra cultura, ci spinge allora a sperimentare una lingua dove non si può farsi capire, perché mancano le parole per pronunciarsi. Sentirsi straniero alla lingua che si parla può provocare un sacco di manifestazioni sintomatiche che ci fanno soffrire nel parlare: colpa, vergogna, malessere, vertigini, dispnea, etc.

Emozioni straniere ovviamente preoccupanti da non tenere la lingua a posto, “è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato”[1]: qualcosa si dice! La lingua francese come lingua dell’Altra cultura ci può svegliare da un’emozione che si sa ma che non ha più voce.

Da restare senza parole ci lascia da solo: mi manca casa. Questa esperienza della solitudine con il francese come altra lingua convoca allora ognuno alla ricerca di “Chi sono?”, quando essere straniero vuole dire non essere più a casa. Come trovare nella lingua straniera un posto da pronunciarsi? Ognuno si mette per questo al lavoro!

Così lontano, così vicino, italiano e francese non vanno d’accordo: c’è con la lingua francese un altro modo di dire, un altro modo di dirsi.

Pronunciarsi con questa lingua dell’altro è tutta un’altra logica perché con la lingua francese non si legge come si scrive. Lettere mute, lettere fantasma, lettere eccezionali, l’italiano deve abituare l’orecchio alla trascrizione fonetica per imparare un’altra musica da sentire con suoni sordi e pochi familiari che si trovano a contatto con l’intraducibile.

La lingua dell’altro che si deve parlare diventa allora un ideale da essere, per trovare un posto da rappresentarsi e identificarsi come soggetto dell’Altra cultura ma c’è sempre il sapore della lingua materna che manca: non si può tutto tradurre.

Prendere tutto il posto dell’altro diventa allora impossibile soprattutto quando finalmente l’altro sei tu. Infatti, molti italiani spiegano che dopo tanti anni passati in Francia sono ridotti a essere: italiano in Francia e francese in Italia.

Prendere la parola con questa lingua dell’altro ha un prezzo, la presenza che una parte di te è assente: tuttavia “lo spero”! Da diventare un altro, mi manca ancora casa. Quell’intraducibile dell’essere ci lascia allora con la musica di: “un gusto un po’ amaro di cose perdute. Di cose lasciate lontano da noi dove il mondo è diverso, diverso da qui…” come continua a cantare Gino Paoli.

Quindi questa esperienza di essere tra due lingue dà luogo a una nuova lingua dove può nascere l’amore: quando l’una viene a mancare, l’altra ti risponderà.

Essere non tutto italiano e non tutto francese dà dunque a l’uno con l’altro un posto per ritrovare questo sapore dell’amore: “dei giorni, che passano pigri e lasciano in bocca, il gusto del sale. Ti butti nell’acqua e mi lasci a guardarti e rimango da solo, nella sabbia e nel sole”. Ci senti? Infatti, “per amare, si deve ammettere la mancanza e riconoscere che hai bisogno dell’altro, che ti manca l’altro […] chi possiede la risposta, o una risposta, alla tua domanda: “Io chi sono?””[2].

Si può dire che essere non tutto francese e non tutto italiano apre allora verso una lingua dell’amore, dove francese e italiano si intrecciano per rispondersi a vicenda.

Numerosi sono gli italianismi degli italiani che possono infiltrarsi quando si parla francese. Un modo di fare e dunque di dirsi all’italiana che viene in più con questa musica intraducibile della lingua materna che ci riviene e che colpisce il cuore.

Nella lingua italiana che si parla la pronuncia si fa con un accento “libero” dove le parole non sono tutte soggette alla stessa regola come nella lingua francese dove l’accento è fisso per tutti. Il canto del fraseggio italiano punta il movimento dell’intensità e dell’espressione dei suoni dell’intraducibile della lingua materna. Da interpungere il senso, si può sentire la musica!

Ognuno compone allora con una voce da suonare che gli dà in più il francese per aprire, uno ad uno, a nuovi significati per nuove sensazioni. Comunque, l’italiano ha questo senso del ritmo dell’intraducibile che ci lascia il cuore sulle labbra e le parole che possono con la lingua francese slittare: questo sapore dell’amore perduto è ritrovato.

Quindi la lingua dell’impossibile si riduce a pronunciarsi con questa voce che tu solo puoi avere e che ci canta: “Sono quello che suono”.

Questo punto d’incontro con l’intraducibile tra italiano e francese, tocca una lingua che ci dà un sapere in più.

Nel finire le frasi a vicenda, si può inventare una lingua dell’amore. Essere fatti l’uno per l’altro è allora un modo di dire con la voce: non gli manca la lingua! Vai Gino Paoli con la musica: “Poi torni vicino e ti lasci cadere. Così nella sabbia e nelle mie braccia. E mentre ti bacio, sapore di sale, sapore di mare, sapore di te!”

Di Eleonora Renna


[1]Freud S., “Il preoccupante” in Saggi sull’arte la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969, p. 275

[2]Miller J.-A., Intervista in Psychologies Magazine, n°278, 2008. [traduzione libera del traduttore].

Storie di bilinguismo: evento APSI

 

 

L'APSI organizza questo interessante evento a Parigi. 

 

La ricchezza del bilinguismo o del plurilinguismo e oggi innegabile, eppure questa danza delle lingue, nella parola e nel pensiero di noi espatriati, è sempre fonte di riflessioni e di questioni.

Noi vogliamo interrogare il bilinguismo dal punto di vista clinico, a partire dalla nostra esperienza di psicologi italiani in Francia, confrontati nel nostro lavoro a una pluralità di realtà linguistiche, e consapevoli che la scelta della lingua da usare in un’analisi o in una psicoterapia non è mai casuale e tocca quella materialità della parola che ci è cara nel nostro lavoro quotidiano con i pazienti.

Vogliamo inoltre dialogare con scrittori e artisti, ma anche con un pubblico più vasto: con genitori espatriati che ancora, a volte, ci chiedono se il bilinguismo sia un ostacolo o uno stimolo nello sviluppo psico-cognitivo del loro bambino.

Vogliamo dialogare con gli insegnanti e gli educatori, con i giovani, gli studenti, gli adulti e gli anziani italiani che vivono in Francia.

La lingua madre ha per ciascuno di noi un valore singolare che varia a seconda della nostra storia, dell’epoca della nostra emigrazione, del contesto sociale e culturale dove viviamo.

Vogliamo riflettere sul bilinguismo italo-francese, ma anche sul plurilinguismo in generale, dal punto di vista clinico e a partire dagli affetti, dalle inibizioni, dalle nevrosi, dalle paure, dalle emozioni, che orientano e colorano il nostro modo di essere e di costruire i legami sociali.

Vi aspettiamo numerosi per condividere con noi le vostre esperienze e le vostre storie di italiani in Francia, bilingui esperti, principianti o in potenza.

Cinzia Crosali