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Condivido il testo del collega dell'APSI Marco Androsiglio
L’importanza del bilinguismo nel lavoro clinico risulta sostanziale per due motivi:
1/ é per mezzo della lingua che il paziente formula la propria domanda;
2/ per lo stesso mezzo il clinico procede nella cura.
Lacan lo enuncia chiaramente: “La psicoanalisi non ha che un medium: la parola del paziente” e “l’analisi riesce a disfare con la parola ciò che è fatto di parola”.
La nuova forma che egli [Freud] vi sostituisce tramite l’interpretazione è dell’ordine della traduzione, e ognuno sa che che cos’è la traduzione. […] Si tratta sempre di una riduzione e c’è sempre una perdita nella traduzione. Quello di cui si tratta è, in effetti, il fatto che si perda. Si coglie, insomma, che questa perdita è il reale stesso dell’inconscio, anzi il reale tout court.
Un esempio: un paziente inglese, durante una seduta esclama “Il rains cats and dogs” constatando il temporale che imperversa fuori dallo studio del suo analista.
Dopo un istante di pausa, continua ridendo: “Anche il cielo ce l’ha con me !”, facendo riferimento al lungo lavoro che aveva svolto attorno alla sua tenace fobia dei cani.
In questa vignetta, che si svolge dunque in inglese, quale delle sue frasi si associa all’altra? La prima frase, chiamiamola F1, produce come conseguenza dell’associazione, F2?
Se si, potremmo dedurne che la lingua inglese, la sola che contiene a mia conoscenza una tale espressione figurata, ha permesso al soggetto di ritornare sulla fobia, argomento per cui, dunque, il paziente intendeva continuare a lavorare.
Questa prima ipotesi potrebbe iscriversi nell’elaborazione, conosciuta sotto il nome degli autori che l’hanno concepita, Sapir-Whorf, per cui, in breve, la lingua nella quale il soggetto si esprime determina il pensiero medesimo.
Una seconda ipotesi, invece, suppone che la decisione del soggetto fosse di proseguire l’elaborazione attorno alla costruzione fobica e che, retrospettivamente, come nell’elaborazione del processo primario del sogno, un elemento di stimolazione esterno (il temporale), si integri nel processo psichico proferendo dunque F1 per articolarsi con F2.
In sintesi l’ordine è da invertire con F2 che precede logicamente F1 malgrado la successione cronologica inversa.
Accadrebbe la stessa cosa nel caso di una psicoanalisi in un soggetto bilingue?
Un paziente che si trova a interrogare il proprio desiderio di essere padre nella coppia porta un sogno in analisi.
Il paziente e l’analista non sono francofoni ma l’analisi si svolge in francese
“Mi trovo a entrare all’interno di una enorme statua della Vergine Maria, che si può visitare. Salgo lungamente sulle scale ed arrivo sino alla testa”” (il sogno è raccontato in francese).
- “La tête du mari…”. (interviene l’analista)
facendo così risuonare l’equivoco tra Maria (Marie) et marito (mari)
Ecco un esempio in cui ci si può interrogare sulla correlazione che intercorre tra due lingue: il paziente in quale lingua ha sognato? L’esporlo in francese che conseguenze ha avuto? L’interpretazione può inserirsi nell’allineato della catena inconscia?
La lingua al di là della comunicazione
Poco fa abbiamo evocato la teoria di Sapir-Whorf che ha come esito l’incommensurabilità di due lingue: se ogni lingua forma e determina il pensiero, non esiste modo di poter passare da un sistema linguistico a un altro.
Ora, in tutta evidenza, verifichiamo quotidianamente che non è questo il caso.
I due esempi riportati, ci permettono però di avanzare in una direzione che si allontana da quello della linguistica per recarci nel campo più proprio della clinica.
Sebbene il contenuto linguistico veicolato dai pazienti porti dei chiarimenti sulla biografia e sugli avvenimenti della vita, non è solo per questa via che il lavoro clinico si svolge.
Se si rimanesse esclusivamente su questo piano, saremmo portati a intendere il percorso terapeutico alla stregua di una dialettica interpersonale di cui la cifra sarebbe al meglio il buon senso, al peggio la suggestione.
In un primo tempo, orientato dall’ipotesi hegeliana e la teoria di Ferdinand de Saussure, Jacques Lacan aprì per primo la strada in cui le tracce del desiderio del soggetto erano rintracciabili attraverso una teoria del riconoscimento.
Già così, in nuce era possibile scorgere quella che fu la portata rivoluzionaria dell’elaborazione lacaniana e che può portare una qualche luce nel tema che affrontiamo oggi: quella del bilinguismo.
Se la parola è fondamentalmente portatrice di senso come effetto in sovrappiù, la faccia nascosta della lingua è quella che si pone al di là del senso e della significazione e che si muove su un terreno in cui la componente “trasmissione dell’informazione” è secondaria.
Una citazione:
Il poeta rifiuta la strumentalizzazione delle parole, sarebbe un sacrilegio, perché ogni letteratura concepita come corona di trasmissione, come pura nominazione, si renderebbe profana, rivelerebbe essa stessa il suo carattere non essenziale, accessorio di fronte alle cose designate dalle parole. Il poeta porta alla lingua una venerazione che gli conferisce un primato sul reale. [La poesia] è il segno denudato che, nella sua fragilità, spoglia il significante del lavoro funzionale del significato, per incendiarsi in un orizzonte di libertà in cui la sonorità stessa è evocazione.
Trovo che la citazione ci trasmetta meglio di qualsiasi altro tecnicismo la portata assoluta del lavoro clinico: la fortuna per un soggetto bilingue si trova precisamente laddove l’estraneità dell’ “altra” lingua gli permette di cogliere appieno il fondamentale esoterismo di ogni lingua, compresa quella materna.
Il soggetto è gettato nell’esistenza nelle coordinate linguistiche, simboliche e sociali che lo precedono. E’ necessario, per l’iscrizione nel legame sociale, accettare di parlare la lingua che ci accoglie.
Nella lallazione o nelle fasi pre-linguistiche, il bambino accede al linguaggio attraverso l’atto del genitore o di chi ne svolge le funzioni, che scommette su di lui e che dietro ai gridi o alle ecolalie, ci sia un soggetto che vuole farsi intendere.
Ebbene, il soggetto bilingue avverte in maniera potente e patente questo iato: la lingua è sempre la lingua dell’Altro. Nello specifico per un parlante italiano, il francese.
In questa transizione tra la lingua italiana a quella francese e viceversa, la negoziazione come principio della traduzione implica un’interpretazione, una scelta che pone il soggetto in difficoltà, raddoppiando il già difficile compito di collegare le parole e le cose, per dirla alla Foucault.
Nel lavoro clinico il compito che attende il soggetto è proprio quello di nominare, a partire da una sofferenza – che è sempre la porta d’ingresso di una terapia- quello che non funziona, quello che non va più.
Questa nominazione quando si precipita, quando è troppo rapida non flette abbastanza la lingua per far cogliere ciò che si cela al di là del senso corrente, al di là della significazione data quotidianamente alla comunicazione.
L’andirivieni tra una lingua e l’altra
Un’altra questione può essere posta: quotidianamente nel lavoro clinico, pazienti italiani bilingue, oscillano tra le due lingue, fanno uso di un’espressione francese parlando in italiano, l’italiano fa la sua apparizione in un lavoro clinico in francese.
Come leggere questi scivolamenti? Sono all’opera meccanismi difensivi? O invece sono deviazioni che rispondono alla regola fondamentale?
È mia opinione che in questi shifting, è da cogliere l’aspetto che più conta, quello del desiderio del soggetto al di là della domanda di voler essere compreso.
Riprendiamo la questione a partire di nuovo dal lavoro di traduzione: come aveva già suggerito Humboldt – tradurre significa non soltanto portare il lettore a capire la lingua e la cultura di origine, ma anche arricchire la propria. Per esempio la traduzione del Finnegans Wake di Joyce porta la lingua di destinazione, l’italiano, a esprimere ciò che essa prima non sapeva fare (così come Joyce aveva fatto con l’inglese) e le fa compiere un passo in avanti.
Se supponiamo dunque che la stoffa del desiderio del soggetto sia della stessa sostanza del testo poetico, allora come nella traduzione poetica, si lavora in una sorta di riscrittura del desiderio che non soltanto tenta di farsi strada tra le parole di una lingua ma che nel suo dirsi si modifica nel suo atto di enunciazione.
L’orizzonte possiamo dirlo, sarebbe di de-maternizzare la lingua.
Di Marco Androsiglio APSI.
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