© Emanuela Surace |
Condivido il testo della collega Emanuela Surace dell'APSI sulla parabola di Yolanda Gigliotti, conosciuta come Dalida
« Il resto resiste. Il suo niente occupa i luoghi vuoti della memoria o della speranza. Il resto ferisce. Nessun resto esiste senza lasciare una ferita, ed é cio’ che resta del resto. L’ombra della presenza e la chiarezza delle lacrime ».
(Jean-Luc Nancy. Que reste-t-il du reste ?)
« E’ molto giovane e bella, con quella bellezza latina e mediterranea che porta il sole in fondo agli occhi e sul viso, e il calore oscuro delle notti sui capelli »
(dalla pochette del primo album Elle s’appelle Dalida, 1957)
« T’amo come un paese »
(Gesualdo Bufalino, La festa breve)
Come raccontare Dalida ? Come definire l’idolo popolare, la diva mediterranea, la cantante Babel, l’icona bionda e melanconica, la tragedienne di mille canzoni d’amore ? Come interrogare la parabola di Yolanda Gigliotti – figlia di poveri emigrati calabresi in Egitto nata al Cairo – destinata a diventare la Callas della musica leggera, regina del varietà in cerca d’assoluto, star cosmopolita di strass e paillettes che canta passando da una lingua all’altra con una sola ed unica preghiera : morire sulla scena.
Affascinate Dalida, per sempre paradossale, figura della mitologia moderna, lettrice appassionata di Freud, paziente della psicoanalisi e come racconta la leggenda, con un esemplare di Malessere nella cultura sul comodino.
Se anche noi psicoanalisti, come migliaia di fans nel mondo, cediamo al suo fascino, non é per l’arrogante quanto inutile ambizione di svelarne l’enigma ma perché l’arte e gli artisti da sempre ci ispirano e ci invitano à pensare, provocando in noi dello stupore, portando della luce sulla nostra clinica.
La parte per il tutto.
Il tentativo sarà allora di pensare questo mito della canzone internazionale, attraverso un dettaglio che nel caso di Dalida é carico di conseguenze : il suo accento.
Cosa sarebbe stata infatti Dalida e la sua storia nel panorama della canzone francese, senza la sua celebrata e rutilante R, cosi sonora e cosi italica ? Senza insomma questa sua dizione fétiche, indispensabile a tutte le sue imitazioni e fonte di puro godimento per chiunque voglia cantare con passione du Dalida ?
Pascal meditava sugli effetti del caso sul corso della Storia, evocando la lunghezza del naso della regina Cleopatra : la piccola causa capace di determinare la faccia del mondo. La mia proposta sarà allora d’interrogare l’enigma Dalida, partendo da questa piccola causa, il suo accento italiano, per nutrire la riflessione clinica.
Si tratterà di delineare un ritratto attraverso la predilezione di un motivo unico, ancor piu potente se si considera il carattere cosmopolita dell’artista.
Un piccolo niente dunque, come un’ombra, come un resto, come un soffio…come un accento.
Presenza latente e/o manifesta ? Ecco il movimento dell’accento : canta, risuona, da il ritmo e il tono come una musica nella musica della pronuncia che tradisce (o traduce) le origini e i luoghi della nostra storia. Un clandestino nella nostra conquista dell’altra lingua che ci segue come un’ombra, restando per sempre pura evocazione e traccia sonora del paese perduto. Un pegno della nostra lingua madre che ci ricorda che questa assenza non ha potuto risolversi – per sempre noi saremo stranieri nonostante la conoscenza delle lingue del mondo.
« Strano fenomeno l’accento » ci ricorda Paul-Laurent Assoun, « questa patologia più o meno cronica, della proferazione si presenta anche come l’irruzione della natura « cantata » della lingua. Accentum non viene forse d’ad–cantum, letteralmente per il canto ? »
E Dalida, da dove viene ?
L’accento anche se nel continuum speculare della voce, é la traccia di una perdita, una deformazione nell’ordine della dizione, una dissidenza, la prova di una differenza irriducibile, per nulla una consolazione dell’identità, finalizzata a conservare la memoria del passato. Nessun patetismo nostalgico, niente di pittoresco, perché come lo testimonia la nostra clinica, il linguaggio é materia dell’affettivo e il rapporto alla lingua e ben troppo complesso, troppo intenso : « Una lingua inoltre non é altro che l’insieme degli equivoci che la sua storia vi ha lasciato persistere » afferma Jacques Lacan.
Ed ecco che nel 1986 (Dalida si suiciderà nel 1987), per interpretare la protagonista de Le Sixieme jour de Youssef Chahine, la nostra diva deve quasi reimparare l’arabo parlato in Egitto. Strana dimenticanza, strana esitazione…Non era nata al Cairo, dove aveva vissuto con la sua famiglia italiana prima di lascire a vent’anni il suo paese per la Francia ? Se si puo’ perdere una nazione, lasciare per sempre una casa natale, come in seguito ritrovare il legame vivo ad una lingua non più parlata e pertanto originaria ?
Come tutto cio’ si trasforma ? Cosa significa questa prova nell’enunciazione, qui derivata dal confronto estremo con il personaggio drammatico di Saddika – povera e vecchia donna che si batte per salvare il piccolo nipote dal colera – cosi lontana dalla sontuosa regina dell’Olympia ?
Il film di Chahine resta il momento culminante del rapporto dell’artista con il mondo arabo e con la sua lingua. Un simbolo di questo legame originario e irrisolto con la sua identità orientale, tra prese di posizione politiche, strumentalizzazioni e ritorni laceranti. Il tutto coronato negli anni da un grande successo popolare che in questo caso si farà tuttavia attendere : Dalida tornerà in Egitto solamente nel 1977 con un ritardo significativo, forse come per un’inconfessabile resistenza nel lungo cammino che da Yolanda porta a Dalida.
Dal quartiere cosmopolita di Choubrah, piccola Alessandria, dove il suo orecchio è modellato dall’immersione nelle mille lingue degli immigrati che qui si confondono, alla conquista di un’altra lingua, il francese. Di questa lingua, Dalida s’impossesserà attraverso il suo celebre accento italiano costellato di sottili sonorità orientali. Sarà la sua italianità che le permetterà di affermarsi e di creare una sorta di lingua musicale (quasi un label): un dettaglio fondamentale che rafforzerà il carisma della nascente star esotica.
Ai suoi esordi, Dalida è un tipico prodotto dell’industria discografica francese degli anni 50. Eddy Barcley, il suo produttore, si propone con un cerrto cinismo, di farne una arma capace di contrastare le cantanti realiste alla Edith Piaf e di opporsi al crescente successo delle starlette latine dell’epoca : «Cercavo (nel 1956) una nuova vedette con un accento, preferibilmente typée, per fare concorrenza a Gloria Lasso che faceva furore. L’esotismo funziona sempre. Gloria Lasso aveva un accento spagnolo, io volevo per farle concorrenza intelligentemente un accento italiano ».
Barcley rivela senza complessi una strategia alla quale la giovane Dalida risponderà perfettamente: l’esotismo –sebbene al prezzo di semplificazioni e stereotipi razialisti– è sempre efficace nella società dello spettacolo. Un’irresistibile machine à fantasmes per il pubblico del dopo-guerra sulla soglia del boom economico. A questo pubblico, la musicalità dell’accento italiano di Dalida –l’accent qui roule– sarà venduto come un prodotto made in Italy fra tanti, degno di erigersi allo statuto di mitologia moderna secondo la definizione barthesiana.
E poiché l’esotisme riflette più i gusti, i fantasmi e i valori dell’osservatore che del soggetto osservato, Dalida si farà conoscere in Francia con una canzone italiana Bambino e conquisterà il successo in Italia con una canzone francese Les gitans, a dimostrazione del relativismo dell’industria discografica, capace di appropriarsi di codici culturali adattabili secondo le latitudini.
Figura dell’erranza.
Tuttavia l’esotismo, risorsa del marketing discografico, acceleratore e nello stesso tempo freno per la carriera di Dalida- si rivela nella nostra prospettiva un riferimento insufficiente.
Dalida è l’emigrata, la straniera, l’artista, tutte figure dell’erranza che ci spingono ad interrogare la nozione stessa di cosmopolitismo, tra processi di produzione dello star stystem e vicissitudini singolari. Una diva poliglotta che ha cantato in 15 lingue, impegnata in un corpo a corpo vitale con la sua lingua originaria, confusa dall’emigrazione, reinventata e ritrovata proprio attraverso la prova della differenza, nel confronto ad una Babele d’idiomi che le ha permesso di farsi un nome, di crearsi una lingua e di fare in modo del tutto soggettivo, l’esperienza della place de l’étranger.
Nella Francia degli anni 60 e ancor di più nel decennio successivo, Dalida incarnerà perfettamente il paradigma della star problematica descritta da Edgar Morin nel suo saggio Les Stars. Figura che segna il passaggio nella cultura di massa dall’euforia alla problematizzazione « Al mito della felicità succede il problema della felicità ». La parabola umana e artistica di Dalida descrive in modo potente questa trasformazione che, per Morin, ha inizio con la morte di due star hollywoodiane, James Dean (1955) e Marylin Monroe (1962). L’ombra della morte e ancor di più del suicidio, ricade sulla luce della star di questa metà del XX secolo, introducendo cosi il mal di vivere nell’immaginario festivo dell’industria dello spettacolo.
La notte del 27 febbraio del 1967 e il suicidio a Sanremo di Luigi Tenco, segnerà per sempre la vita e il repertorio di Dalida.
Ma questa problematizzazione condurrà anche all’esaltazione del mito della cantante, che incarnerà per sempre il simbolo di un’erranza e di una ricerca reale. « La star» ci ricorda ancora Morin « é il frutto di un insieme di proiezioni e identificazioni di una particolare violenza». Cosi l’accento di Dalida questa frazione recondita, quest’agalma sonora, causa del desiderio del suo pubblico, feticizzato e super-personificato, pur nello splendore e nella celebrazione del sogno mediterraneo si tinge del colore della melanconia e della perdita. Testimonianza della presenza del reale in seno all’ideale. Motivo di un effetto potenzializzato, di un transfert massivo che qui, attraverso questa musicalità segreta, prende il tono di un’incursione della natura « cantata » della lingua.
La nozione di musicalità che sostiene la mia riflessione, s’ispira alla teorizzazione del teatro della Phoné di Carmelo Bene. Derivata dal teatro greco -dove tutto é musica– la musicalità rappresenta per il grande attore italiano, uno slittamento, le depassement che forza l’inerzia dell’ascolto. Come per il celebre strabismo di Dalida, divario del punto di fuga dello sguardo, particolare perturbante, scandalo estetico nel cuore della visione e dell’immagine, cosi nella non fissità della lingua, l’accento può dunque considerarsi, come uno sgambetto nel parlêtre, come questa musicalità che per una forma di teatralità, destabilizza l’ascolto e intensifica il senso.
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